Risultato della ricerca: Tsipras

Campagna elettorale. I partiti e L’Europa.

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img_4633di Roberta Carlini, su Rocca.
Non è facile scavare nel merito delle proposte di una campagna elettorale di rara bruttezza, molto al di sotto del livello dell’alfabetizzazione dell’elettore medio che già – si sa, purtroppo – non è alto. Ma volendosi cimentare nell’impresa, è necessario partire dall’Europa, o meglio dai patti siglati con l’Unione europea che impegnano il nostro paese, condizionano la sua politica economica e catalizzano da anni, e soprattutto dall’inizio della crisi economica, lo scontento dei cittadini. Non solo in Italia, e non solo nei Paesi che sono allo stesso tempo principali imputati e vittime della Commissione europea: l’ondata di protesta e di agitata ricerca di vie d’uscita è stata anzi finora più forte nei Paesi forti, dalla Gran Bretagna alla Germania alla Francia, che in quelli deboli come la Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Grecia.
L’Unione europea si è spaventata per Tsipras, e lo ha punito e costretto a tradire il patto con i suoi elettori; ma è stata squassata più che dagli indisciplinati greci dai sudditi di sua maestà britannica che hanno votato a favore della Brexit. E l’ondata di partiti nazionalisti, xenofobi e razzisti ha tracimato nel cuore politico europeo, a partire da Austria, Germania e Francia; per non parlare del blocco nero di Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia.

non confondere le acque
Dunque, l’Unione europea attraverso gli uomini-chiave delle sue istituzioni fa bene a preoccuparsi se un candidato alla guida di una delle regioni più ricche d’Europa, la Lombardia, fa dichiarazioni apertamente razziste; ma sa bene che il fenomeno non è isolato, semmai accomuna la locomotiva della produzione italiana ad altre regioni opulente del vecchio continente. Questo non è un motivo per abbassare la guardia, o fare spallucce; ma dovrebbe consigliare ai dirigenti europei di essere molto attenti a non mischiare i piani: per esempio, a non accomunare nello stesso discorso e nello stesso giorno gli attentati ai diritti e principi fondamentali sui quali l’Europa è costruita alle questioni di politica economica, le dichiarazioni sulla razza e quelle sul bilancio pubblico.
Anche perché, così facendo, si alimenta ancora di più il populismo che si vuole combattere: Pierre Moscovici, commissario Ue agli affari economici, ha stigmatizzato come «scandalose» le dichiarazioni di Fontana, candidato del centrodestra alla regione Lombardia, sulla difesa della razza bianca e allo stesso tempo ha duramente criticato chi, come il candidato pentastellato Luigi Di Maio propone di fare nuovo debito pubblico, anche superando il tetto del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Dando a tutti costoro la possibilità di gridare alla lesa maestà e di confondere le acque. Gli elettori italiani devono in primo luogo decidere se votare qualcuno che ha «la difesa della razza bianca» tra i suoi valori di riferimento; e poi, chiarite le posizioni sui princìpi fondamentali, valutare gli schiersmenti sulle proposte economiche, sull’azione di governo concreta che si vorrà sviluppare.

la gara a scaricare l’Europa
Andando nel merito di quest’ultima: non I Cinque stelle, che hanno sempre detto che dovrà decidere il popolo, non insistono neanche più sul referendum. Anche perché sanno che non è realizzabile, visto che la nostra Costituzione non consente referendum su materie regolate da trattati internazionali. E allora? La gara tra gli schieramenti è a scaricare l’Europa. Prima tutti facevano mostra di un alto tasso di europeismo, adesso c’è solo il piccolo partito radicale che ha l’Europa – con il segno più: + Europa – nel suo simbolo e nel suo programma.
Nel centrodestra, Berlusconi tiene basso il discorso e fa mostra di moderatismo, mentre i suoi alleati di Lega e Fratelli d’Italia incolpano Bruxelles di tutti i mali, a partire dall’immigrazione.
Il M5S, come s’è detto, ha sostituito la parola d’ordine del referendum sull’euro con quella dello sfondamento del 3%, ossia della regola di bilancio imposta più di un quarto di secolo fa a Maastricht.
Il Pd è caratterizzato da un europeismo riluttante: da un lato rivendica la sua fedeltà all’Unione e i buoni rapporti con Bruxelles (e Francoforte, sede della Bce) di uomini come Gentiloni e Padoan; dall’altro Renzi, populista dall’interno del potere, tiene bassissima la bandiera europea (che aveva eliminato dallo sfondo di palazzo Chigi nella campagna elettorale per il referendum costituzionale), e rivendica le passate sfide, la richiesta di flessibilità sui conti, i pugni sul tavolo. E anche alla sua sinistra, Liberi e Uguali chiede una profonda riforma dell’Europa – non una fuoriuscita unilaterale – ma si guarda bene dal fare di un europeismo federalista la sua cifra e bandiera.

mutamento dello scenario europeo
Si capisce bene il perché di tutto ciò: si corre per vincere, e il «brand» dell’Europa è al momento perdente. Ma qualsiasi governo si insedierà alla guida del Paese dopo il 4 marzo, dovrà fare i conti con una procedura d’infrazione per deficit eccessivo rinviata dallo scorso autunno alla primavera; con la compatibilità dei suoi atti con le regole firmate a livello internazionale; con le stabilità o instabilità dei mercati finanziari ai quali si va a chiedere di sottoscrivere debito pubblico, e con le mosse di politica monetaria della Bce.
Non solo. Dovrà fare i conti con il mutamento dello scenario europeo, innescato dalla possibile scelta di un governo di grande coalizione in Germania nel cui programma Spd e Cdu-Csu hanno messo al primo posto la riforma della governance europea.
A guardare sotto gli slogan e dentro i programmi, c’è poca traccia di tutto ciò. Le promesse elettorali, dal reddito di cittadinanza o dignità dei Cinque stelle e di Berlusconi, alla costosissima flat tax, alle mance a destra e a manca, se realizzate porterebbero allo sforamento dei tetti imposti dalla Commissione. Ma attenzione:
anche se non esistesse l’Europa né il suo patto di stabilità – che ha aggiornato gli originari parametri di Maastricht, imponendo non solo i rispetto di quei tetti ma anche le regole per il percorso di rientro dagli squilibri – la nostra Costituzione, prima ancora che il buon senso contabile, impone di mettere delle coperture a fronte di ogni spesa.

fare nuovo deficit non è una bestemmia
È legittimo, anzi doveroso, avanzare proposte per stimolare l’economia, migliorare il welfare state, coprire i bisogni delle persone in difficoltà; ma bisogna dire con quali risorse pubbliche pagare tutto ciò. Fare nuovo deficit non è una bestemmia né una violazione di leggi naturali, ma bisogna essere sicuri del fatto che queste spese (o minori entrate) porteranno benefici all’economia e il debito rientrerà in futuro, invece che accelerare.
Su questo, l’esperienza del governo Renzi dovrebbe aver insegnato qualcosa. Nonostante la comoda vulgata dell’Europa cattiva e arcigna, molto extra-deficit è stato concesso all’Italia, sotto il nome di “flessibilità”, ed è stato usato per togliere la tassa sulla prima casa per tutti, anche i più abbienti, e per incentivare le assunzioni stabili, senza però, in quest’ultimo caso, riuscire nell’obiettivo. A volte si ha l’impressione che l’Europa sia un perfetto alibi per trovare un cattivo di turno su cui scaricare il malcontento, evitando di prendersi la responsabilità di scelte che possono essere anche sbagliate: nel qual caso, sarebbe bene fermarsi a riflettere e cambiare indirizzo. Per esempio, mirando le spese in deficit agli investimenti, in infrastrutture fisiche o sociali, capaci di generare nuovo reddito e dunque nuove entrate anche per lo Stato.
Se si presentassero con proposte simili, e non con demagogia antieuropea e mance per gli elettori, i partiti in campo potrebbero sfidare un establishment europeo che nelle principali capitali ammette le sue difficoltà; e partecipare al processo di riforma che – forse – sarà innestato dal nuovo governo tedesco, e da un rinnovato asse con la Francia di Macron. A meno di non lasciare, come nel passato, che la guida franco-tedesca decida per noi, che mentre a parole facciamo finta di insultarli e sfidarli nei fatti ci accodiamo, e speriamo di ricevere qualche briciola nel traino.

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Per connessione: da Aladinews del 5 gennaio 2018
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di Umberto Allegretti su Rocca
Un bilancio dell’anno appena trascorso per quanto riguarda l’Unione Europea non può esser pieno di molte ombre e di qualche luce, ombre e luci talora fra loro commiste. Le questioni si affollano e qui sceglieremo di accennare solo ad alcune che riteniamo particolarmente importanti.
La tela di fondo di tali questioni è data dal problema delle istituzioni europee come tali, che hanno certamente bisogno di pro- fonde ristrutturazioni. Un’Europa «sociale», un completamento dell’Unione sui vari aspetti del problema economico, una sua incisività sulla politica mondiale, rappresentano i settori, o alcuni dei settori, che avrebbero necessità, nell’attuale quadro mondiale, di una struttura dell’Unione più democratica, più efficace, meno «sovranista» più capace di affrontare i problemi gravissimi posti dalla situazione del pianeta in un’età di squilibrio e di guerra. Il problema istituzionale è affrontabile, come è stato notato, su due piani: con una migliore applicazione delle possibilità che già il Trattato di Lisbona prevede, e con una revisione di aspetti importanti del Trattato.

le cose da cambiare
Nella prima direzione, oggetto di importanti proposte nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato il 13 settembre davanti al Parlamento europeo dal Presidente della Commissione Juncker – la cui azione complessiva appare tuttora, salvo errore, rispetto ad altri organi europei quella più incisiva sulle proposte e i comportamenti dell’Unione –, si dovrebbe pensare di attuare una serie di passaggi dell’Unione a politiche più efficaci previste dal Trattato ma finora scartate. Per esempio, sarebbe possibile già ora applicare le possibilità di cosiddette «passerelle», che consentirebbero di passare in seno al Consiglio dalla necessità dell’unanimità degli Stati al voto a maggioranza qualificata, come nei settori della politica estera e delle politiche fiscali. Come pure di passare, per quanto riguarda il ruolo del Parlamento, dalla procedura di semplice parere a quella codecisionale.

problemi istituzionali
Altre variazioni rispetto alle pratiche attuali richiederebbero peraltro – come notato in un articolo dell’autorevole Paolo Ponzano, già alto funzionario europeo e ora, oltre a una forte esperienza all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, docente al Collegio europeo di Parma – elementi di modifica dei Trattati e sono perciò più difficili da attuare. Anche se bisogna tenere conto della forte azione propulsiva del Presidente francese Macron, che si è inoltrato nei suoi discorsi nella delineazione di solidi irrobustimenti del lato in qualche misura «federalista» rispetto a quello «sovranista» che ora prevale in seno all’Unione, ma il cui seguito avrebbe bisogno dell’intesa prima di tutto con una Germania attualmente in una per lei inconsueta difficoltà di
governabilità.

oltre le divisioni socio-economiche
È sempre più chiaro che esistono attualmente in seno all’Unione differenze di linea considerevoli tra gli Stati membri favorevoli ad avanzamenti o suscettibili di divenirlo e altri, tra cui quelli del Nord-Europa ma soprattutto quelli dell’area ex-socialista. Se questo spinge alcuni ad auspicare una netta delimitazione nel futuro fra due Europe, altri, forse a ragione, preferiscono in nome di un’unificazione del Continente decisa a cavallo del secolo XX e del XXI, tollerare le attuali differenze e lavorare pazientemente per superare le divisioni. Purché lo si faccia con la decisione necessaria, per esempio non esitando ulteriormente (alcuni segni sembrano ora esserci) ad adottare sanzioni previste dal Trattato nei confronti di quei paesi – Ungheria, gli altri paesi di Visegrad e ora in maniera particolarmente preoccupante la più vasta Polonia – che mostrano di alterare al loro interno, ma con effetti debordanti i loro confini, i fondamentali principi dello stato di diritto, come l’indipendenza della magistratura e della giurisdizione costituzionale e che rifiutano di accettare la loro pur tenue porzione di accoglienza dei migranti.

le diverse politiche sociali e fiscali
Non si tratta però di meri problemi «istituzionali». Bisogna che ci si decida ad avanzare – in questo favoriti dall’uscita dall’Unione, ancora peraltro a mezza strada, della Gran Bretagna – verso politiche sociali valide per tutta l’Unione e verso politiche fiscali comuni, essendo ormai più che palese l’impossibilità e l’ingiustizia di fiscalità così diverse tra gli Stati membri, quali quelle che fra l’altro hanno permesso finora – anche qui qualche segno positivo si sta aprendo – all’Irlanda e allo stesso Lussemburgo già governato da Juncker di offrire possibilità di elusione delle tasse a grandi multinazionali, come quelle agenti nel campo informatico o alla Ryanair o a evasori singoli o societari dei nostri stessi paesi. Potrebbe la ripetuta proposta di un Ministro delle finanze europeo quanto meno per la zona euro, fornire uno strumento per andare in una direzione di contenimento di queste disparità?

Europa Africa
L’autorevolezza della politica dell’Unione verso l’esterno, finora scarsissimamente esistente come politica unitaria, dipende anche dalla capacità dell’Unione di governare le sue tensioni interne. Un esempio clamoroso e tra i più preoccupanti è quello della politica verso il continente africano. Che un compito di aiuto all’Africa da parte dell’Europa sia doveroso e opportuno per la stessa Europa è assolutamente evidente. Ma si sono fatti in questo anno dei veri passi avanti in questa direzione? Da tempo si parla di un cosiddetto Piano Marshall per l’Africa. Ma l’aiuto finanziario ai paesi della fame come quelli del Sahel, che poi generano le massicce migrazioni cui assistiamo ormai da anni, ha veramente decollato? I poco più di tre miliardi di euro promessi e, per quel che si può sapere, non ancora erogati a pro’ di questi paesi – e che certo hanno bisogno di garanzie di corretta spesa, per la quale si son fatte peraltro buone proposte di vigilanza da parte di organismi Onu – non sono certo una misura sufficiente. Meno ancora lo è il puntare primariamente sull’azione contro il fattore, preoccupante ma derivato, di lotta contro il terrorismo che può alimentarsi in quei paesi, preoccupazione che ci pare abbia malamente dominato il recente vertice Europa-Africa di Abidjan. E come vantarsi, in questa situazione, di esser riusciti a contenere il numero degli sbarchi in Italia – a parte lo scandalo dei «campi» in Libia – come fanno il pur ben disposto governo italiano attuale e il suo ministro? In sintesi, un’Europa della solidarietà e della pace non può limitarsi ai problemi interni dell’Unione, ma deve sboccare in una capacità di azione internazionale che avrebbe in Africa, oltre che in Medio Oriente, il suo campo di prova più necessario.

unione monetaria
In presenza di questi e altri problemi, e in attesa fra l’altro della conclusione delle trattative per un nuovo governo tedesco, la Commissione ha elaborato un pacchetto di proposte sul rafforzamento dell’unione monetaria nel quale ha cercato di accontentare un po’ tutti: inserzione del Fiscal Compact nel diritto europeo ma con la fles- sibilità già concessa all’Italia e ad altri paesi, completamento dell’unione bancaria ma con la riduzione dei rischi nei paesi dove le banche hanno troppi titoli di Stato nel loro portafoglio, creazione di fondi di stabilizzazione macro-economica ma con impegni paralleli di convergenza, e altro. Queste, per ora, le prospettive per il nuovo anno, piene anch’esse di luci e di ombre.
Umberto Allegretti
UNIONE EUROPEA
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Ripartire dalle città. L’esempio di Barcellona. E in Sardegna è possibile?

torre-elefante-e-universitasassariOLYMPUS DIGITAL CAMERA01-piazza-eleonora-e-statua-800x800Oltre il municipalismo: la sfida all’Europa dell’alcaldessa Ada Colau
di Steven Forti
«In Spagna si sta affermando il neomunicipalismo, ovvero l’idea di ripartire dalla città, Barcellona è l’esempio più grande. Ma l’obiettivo è far nascere una rete europea delle città ribelli». MicroMega online, 21 aprile 2017 (c.m.c.), ripreso da eddyburg.

Il 24 maggio del 2015 in diverse città spagnole delle liste civiche nate dal basso vincono le elezioni comunali. A Madrid, Barcellona, Saragozza, Cadice, Pamplona, Santiago de Compostela, La Coruña, Badalona i cittadini entrano per davvero nelle istituzioni con progetti di rottura rispetto al passato. Esperienze diverse in contesti urbani diversi. Grandi metropoli e piccoli capoluoghi di provincia. Ma con un punto in comune: cambiare la Spagna e chiudere con i quarant’anni di bipartitismo PP-PSOE, partendo dalla partecipazione della cittadinanza e dallo strettissimo legame con i movimenti sociali presenti sul territorio. Sono passati quasi due anni da quel giorno e la scommessa neomunicipalista, che ha ottenuto importanti risultati nelle città in cui governa, guarda già oltre il municipalismo.

Il neomunicipalismo è figlio del movimento del 15M, gli Indignados, che hanno invaso le piazze spagnole nel maggio del 2011. La reazione alla grande crisi, che stava distruggendo, con le contro-riforme del governo Zapatero e poi del governo Rajoy, il fragile Welfare state spagnolo, è stata imponente e ha permesso la politicizzazione di una nuova generazione che negli anni della bolla immobiliare viveva per lo più nell’apatia politica. Il triennio 2011-2013 è stato quello delle grandi manifestazioni, delle Mareas in difesa della sanità e dell’educazione pubblica, del radicamento degli Indignados nei quartieri delle città, della lotta contro gli sfratti portata avanti dalla Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah), di cui Ada Colau, attuale sindaca di Barcellona, era la portavoce.

La disoccupazione aveva toccato i drammatici record greci (27%), le famiglie che avevano perso la casa erano oltre 500mila, i giovani che emigravano circa 100mila l’anno. Il sistema spagnolo, nato con la transizione dalla dittatura franchista alla democrazia, era entrato in cortocircuito: non si trattava solo di una crisi economica e delle sue tragiche conseguenze sulla popolazione, ma di una crisi sociale, politica, istituzionale, territoriale e culturale.

Partecipazione, trasparenza e confluencia
È in questo contesto che nasce la scommessa neomunicipalista. E il caso di Barcellona è senza dubbio quello più emblematico. Nei mesi in cui a Madrid un gruppo di giovani professori universitari lancia Podemos con l’obiettivo di presentarsi alle elezioni europee del maggio 2014, nel capoluogo catalano una dozzina di attivisti con alle spalle le lotte dei primi anni Duemila, in cui Genova, il movimento no global e l’esperienza dei dissobedienti italiani sono stati riferimenti costanti, capisce che la sfida dev’essere lanciata a livello locale. L’obiettivo non è il Parlamento europeo e nemmeno quello spagnolo o quello catalano, ma la città di Barcellona.

Nel giugno del 2014 si presenta un manifesto, Guanyem Barcelona, ossia Vinciamo Insieme Barcellona, con cui si invita la cittadinanza a partecipare. Ci si dà poco più di due mesi di tempo per raccogliere 30mila firme. Se non si ottengono, non si fa nulla. Non ci sono i partiti, non ci sono le fantomatiche quote. Sono mesi di assemblee pubbliche in tutti i quartieri della città, in cui si ascoltano le persone, soprattutto quelle più colpite dalla crisi e dalle politiche di austerity. Di firme se ne raccolgono molte di più ben prima della scadenza prevista. Inizia così un progetto che oggi è una solida realtà che governa la seconda città della Spagna e che passerà a chiamarsi Barcelona en Comú.

Il resto è storia ed è ormai conosciuto. L’attento e faticoso lavoro per costruire una confluencia con le formazioni politiche della sinistra catalana che decidono di sommarsi a questo progetto: Iniciativa per Catalunya Verds (ICV), Esquerra Unida i Alternativa (EUiA), Podemos, Equo, Procés Constituent. In una confluenza non si ragiona per quote come in una coalizione, ma secondo la logica “una testa un voto”. Non è facile, ma ci si riesce: nasce un nuovo soggetto politico in tutto e per tutto, un nuovo spazio dove le regole sono diverse. Ma fin da subito c’è l’elaborazione di un codice etico, con cui si limitano mandati e stipendi, e di un programma, costruito insieme alla cittadinanza. Infine, e solo come ultimo passaggio, c’è la creazione di una lista con una candidata che nessuno mette in discussione: Ada Colau. Il tutto, è bene ricordarlo, con processi di votazione, sia presenziale sia on-line gestiti da una società che, a differenza del Movimento 5 Stelle, non ha collegamenti con i vertici politici della formazione.

Dal maggio del 2015 si è fatto molto, per quanto gli ostacoli e le difficoltà siano state tante. Innanzitutto perché governare in minoranza non è facile. Il sistema politico spagnolo è diverso da quello italiano, non c’è il ballottaggio e la lista vincente non ottiene la maggioranza assoluta nel consiglio comunale. Barcelona en Comú ha 11 consiglieri su 41: per arrivare ai 21, che significano la maggioranza, la strada è impervia, tenendo poi conto che la frammentazione politica è notevole con ben sette formazioni spaccate non solo sull’asse destra/sinistra, ma anche su quello indipendenza catalana sì/no. Nella primavera del 2016, dopo una consultazione tra gli iscritti a Barcelona en Comú, si è arrivati a firmare un accordo con i socialisti che sono entrati nel governo.

La maggioranza è ancora lontana, ma senza dubbio è stato un passo avanti, non scevro da dubbi e critiche. Ma le difficoltà sono poi nel reale potere dei Comuni in Spagna dopo la ricentralizzazione portata avanti dai governi del PP negli ultimi anni con la scusa degli sprechi delle amministrazioni locali: con la legge Montoro, i Comuni, oltre ad essere stritolati dalle politiche di austerity, non possono nemmeno spendere a fini sociali l’eventuale avanzo di bilancio. Infine, rimane la vexata quaestio della relazione tra movimenti e istituzioni: il rischio, sempre presente, è quello di una istituzionalizzazione del progetto una volta dentro il palazzo.

Due anni di governo

I primi mesi di governo sono stati difficili anche per la dura campagna di stampa dei grandi mass media. “Non sono capaci di fare politica. Non sanno gestire un’amministrazione. Non è gente preparata”, si ripeteva continuamente. Dopo due anni ci si rende conto che non è stato così. I bilanci dei Comuni, non solo quello di Barcellona, ma anche degli altri governati da liste neomunicipaliste, non sono più in rosso, come in passato. Ed anzi si è ridotto il debito creato dalle destre: a Madrid, in solo un anno e mezzo, Manuela Carmena ha ridotto di quasi 2 miliardi di euro il debito del Comune sui quasi 6 miliardi che si era trovata quando è stata eletta. Le radicali misure di trasparenza, insieme alla limitazione degli stipendi, ha dato i suoi frutti. E allo stesso tempo si sono aumentate le politiche sociali.

A Barcellona si sono finanziate fin da subito le mense per gli studenti, si sono investiti 150 milioni di euro in un Piano per i quartieri, si sono costruiti nuovi asili e si sono rimunicipalizzati quelli che erano stati privatizzati, si è avviato un piano per ricollocare le famiglie sfrattate e un piano di costruzione di case popolari, oltre ad obbligare le banche a mettere sul mercato gli appartamenti sfitti a canone sociale e a multare quelle che si negano. Si sono poi fatte pressioni sulle grandi compagnie di acqua, luce e gas per evitare che alle famiglie a rischio povertà vengano tagliati i servizi durante l’inverno. Si è avviata la costruzione della prima impresa di energia elettrica comunale – sarà la più grande di tutta la Spagna – che a breve potrà servire 20mila cittadini e di un’impresa di onoranze funebri comunale che ridurrà di circa il 50% i costi rispetto a quelle private esistenti attualmente.

Si sono potenziati i trasporti pubblici, sia il metro che gli autobus, si stanno costruendo 62,5 km in più di piste ciclabili in tutta la città e si è avviato l’esperimento delle superilles – ossia, spazi in cui si vieta la circolazione di veicoli – con l’obiettivo di trasformare Barcellona in una città ambientalmente sostenibile. Si è lavorato poi molto sul grande problema del turismo e della conseguente gentrificazione – Barcellona riceve oltre 27 milioni di turisti l’anno –, approvando il PEUAT, un piano comunale che proibisce la costruzione di nuovi hotel in tutto il centro cittadino, e multando con 600mila euro AirBnB che mantiene sul suo portale annunci di appartamenti senza licenza. Il tutto sempre con la partecipazione della cittadinanza: il nuovo Programa de Actuación Municipal (PAM) è stato elaborato grazie a 430 assemblee nei quartieri e alla piattaforma web decidim.Barcelona (“decidiamo.Barcellona”), tramite cui si sono raccolte oltre 10mila proposte fatte da associazioni attive nella città o da singoli cittadini, che sono state votate da più di 130mila persone.

Se ciò non bastasse, tante sono state le battaglie ancor più direttamente politiche che sono state fatte: per la chiusura dei CIE, scontrandosi con il governo spagnolo; per una memoria storica democratica, recuperando la storia degli sconfitti troppo spesso dimenticati dalle istituzioni; per la femminilizzazione della politica, che va ben al di là delle sole “quote rose” e riguarda tutti gli ambiti della vita istituzionale e non. E poi la questione dei rifugiati e dell’accoglienza in un’Europa sempre più chiusa nella sua fortezza, divorata da nazional-populismi xenofobi: nel settembre del 2015 Ada Colau ha lanciato la proposta delle Ciudad Refugio, le città rifugio, permettendo così la creazione di una rete di “città ribelli” che in tutta la geografia spagnola lavora con altre priorità, mettendo in comune nuove esperienze e nuove pratiche.

Oltre il Comune

Il Comune, però, non è l’unico obiettivo di un progetto politico che guarda oltre le frontiere della città. E questa è la grande forza del neomunicipalismo di Barcelona en Comú. Il Comune è il primo step, un livello in cui la distanza tra governanti e governati è minore, in cui il contatto con la cittadinanza e con il tessuto associativo è sempre presente, in cui le battaglie che si portano avanti hanno una ricaduta immediata.

Ma bisogna andare oltre. In primo luogo, per quanto riguarda il caso di Barcellona, la realtà catalana, ma poi anche la Spagna e l’Europa. Perché? Lo ha spiegato recentemente Ada Colau: “«Non è un caso che il municipalismo sia sempre più presente. È stato un errore democratico non considerare le città come degli attori politici. E si sta dimostrando che se vogliamo migliorare e approfondire la democrazia, le città non possono solo amministrare perché dobbiamo affrontare le grandi sfide globali che ci pongono gli Stati: il cambio climatico, la mobilità, il problema della casa, la disuguaglianza, le migrazioni… Le grandi sfide globali hanno luogo nelle città e non si tiene conto politicamente delle città. I Comuni devono avere più voce e più voti, più capacità di decisione e più peso politico».

Dopo oltre un anno di riunioni e di incontri pubblici in tutta la geografia della Catalogna, è nato lo scorso 8 aprile il nuovo soggetto politico catalano che segue il modello di Barcelona en Comú. «L’apparizione di questo spazio politico ha molto a che vedere con la crisi politica in cui viviamo, la nostra democrazia non funziona come dovrebbe e molte persone hanno deciso di implicarsi e corresponsabilizzarsi per migliorare le forme di fare politica», queste sono state le parole di Ada Colau l’8 aprile. Il nome del nuovo partito non è ancora stato stabilito, probabilmente sarà quello di Catalunya en Comú o di En Comú Podem, che è il nome della coalizione che ha vinto le elezioni politiche generali in Catalogna sia a dicembre 2015 che a giugno 2016, mandando al Parlamento di Madrid ben 12 deputati guidati dallo storico e attivista Xavier Domènech.

Si tratta di una confluenza che riunisce, nonostante i dubbi e le frizioni con un settore del Podemos catalano, le stesse formazioni che hanno dato vita a Barcelona en Comú e che è nato con un processo partecipativo chiamato Un País en Comú (“Un Paese in Comune”): un programma e un codice etico costruiti con la cittadinanza in un contesto estremamente complesso come quello catalano, con la questione dell’indipendenza – difesa dall’attuale governo regionale – sempre sulle prime pagine di tutti i giornali. Rompere il frame indipendenza sì/indipendenza no con un programma centrato sulle politiche sociali, sui beni comuni e sulla difesa di un referendum non sarà facile per il nuovo soggetto politico lanciato da Ada Colau. Vedremo i primi risultati in autunno, quando molto probabilmente si terranno le elezioni regionali anticipate.

Ma non c’è solo il livello catalano che è indispensabile per dare respiro ai Comuni “ribelli”, facendo pressioni sul governo regionale e su quello nazionale per modificare leggi e politiche restrittive. La sfida neomunicipalista guarda molto più in là dei Pirenei. C’è l’Europa, in primo luogo, ma in realtà c’è tutto il mondo. Lo si fa con umiltà e senza fretta, seguendo la massima “andiamo piano perché andiamo lontano”. All’interno di Barcelona en Comú, che è un partito “pesante”, e non “leggero” come Podemos, vi è infatti una commissione internazionale che lavora da oltre un anno a una mappatura dei progetti neomunicipalisti esistenti in tutto il globo: da liste civiche nate dal basso che governano alcune città, grandi come Napoli o la cilena Valparaíso o piccole come l’inglese Frome, a progetti che hanno fatto il salto alla politica e che si trovano ora all’opposizione in Comune, come Coalizione Civica a Bologna, Buongiorno Livorno o Ciudad Futura a Rosario in Argentina, fino a movimenti con un’agenda municipalista che non hanno ancora deciso di presentarsi a delle elezioni in Italia, Francia, Polonia, Stati Uniti, Germania, Grecia, Danimarca e un’infinita di altri paesi. L’obiettivo è quello di creare una rete municipalista internazionale.

Per questo i prossimi 9-11 giugno si terrà a Barcellona un incontro internazionale chiamato Fearless Cities, città senza paura, a cui parteciperanno centinaia di progetti neomunicipalisti provenienti da tutto il mondo, per condividere pratiche e tessere relazioni in vista di quello che sarà il nuovo step di questa scommessa: riportare la politica tra le persone, renderla partecipativa, promuovere politiche di accoglienza, rompere le gabbie delle leggi di bilancio schiave dell’austerity. O come ha detto recentemente Ada Colau: «considero che il municipalismo è essenziale per migliorare la nostra democrazia. Questo è il secolo delle donne e il secolo delle città. E il luogo migliore per vivere questo momento politico così appassionante è il municipalismo, che non è altro che l’amministrazione più vicina alla cittadinanza».

Grande confusione sotto i cieli d’Europa

nuvoleBrexit e indipendenze delle nazioni senza stato
di Nicolò Migheli

By sardegnasoprattutto/ 27 giugno 2016/ Culture/

Grande confusione sotto i cieli d’Europa. Il Brexit inaspettato, rimescola strategie, rapporti di potenza. Inutile sottolinearlo, l’Europa che conoscevamo, quella uscita dai due eventi traumatici: la II Guerra Mondiale e il crollo dell’Urss non sarà più la stessa. Il percorso di abbandono britannico non si annuncia facile, Nicola Sturgeon la premier scozzese, annuncia una opposizione dura contro il Brexit; in caso di uscita dalla Ue, un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia.

Brent_oilfieldOliver Perra dall’Ulster, scrive nel suo blog che il percorso stavolta non si prospetta né facile né tranquillo. Se la GB dovesse lasciare la Ue e la Scozia indipendente, il Vallo di Adriano diventerebbe una frontiera comunitaria esterna, con tutti i controlli usuali, con l’Inghilterra oggi primo partner commerciale della Scozia e il Brent a 50 dollari. Condizioni economiche non facili e gli scozzesi- mi si passi il pregiudizio- sono noti per la loro attenzione al danaro. Allo stesso modo la pace del Venerdì Santo, che ha disarmato l’irridentismo nord irlandese è avvenuta perché il confine tra Ulster e Eire era comunitario, quasi insesistente.

Cosa potrebbe avvenire in futuro? Nessuno lo sa. L’Inghilterra è disposta a perdere l’unica base dei suoi sommergibili atomici, del suo deterrente nucleare, che si trova in Scozia? Chi pagherebbe i costi stratosferici di trasferimento? Lo stessa adesione di una Scozia indipendente alla Ue è in dubbio, verrebbe tenuta nel medesimo limbo in cui oggi versano Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo? Chi lo sa.

Sergio Romano su LinKinchiesta.it: Mi piacerebbe che se ne andassero [gli scozzesi, n.d.r] dal Regno Unito. Sarebbe una lezione della Storia, un altro modo per fare capire all’Inghilterra che ha sbagliato tutto. L’Unione Europea però non è nata per spaccare gli Stati. Il giorno in cui se ne va la Scozia, come fa un leader catalano ad accontentarsi di meno?

Per le regole che governano i consessi internazionali non basta dichiarare la propria indipendenza, bisogna che gli altri stati la riconoscano, che lo stato nascituro sia all’interno dei loro disegni geopolitici. Se guardiamo ai nuovi stati nati in Europa negli ultimi settant’anni troveremo che le ragioni internazionali o la volontaria cessione di sovranità da parte della potenza dominante sono la costante. Cipro e Malta divennero indipendenti per scelta della Gran Bretagna, la prima dopo una lotta di liberazione, la seconda perché il ruolo della Royal Navy in Mediterraneo si era contratto.

Indipendenze che rientrano nel più vasto panorama di fine dell’Impero britannico e nella seguente decolonizzazione. Gli stati baltici riacquistarono l’indipendenza perduta al principio della II Guerra Mondiale per la scomparsa dell’Urss, così come Bielorussia ed Ucraina, la Moldavia, Georgia, Armenia, per rimanere in Europa. Stati che vennero immediatamente riconosciuti dall’Occidente perché considerati una sorta di bottino della Guerra Fredda. La Jugoslavia scomparve dopo guerre sanguinose, non solo per i conflitti insanabili tra le nazionalità e gli interessi contrastanti, ma anche perché le indipendenze rispondevano al disegno di allargamento di influenza della Germania unificata nei Balcani.

Non dimentichiamoci che il primo stato che riconobbe la Croazia fu il Vaticano del papa polacco. Stato piccolo, ma con un grande peso nel mondo. Come si può vedere il desiderio di autodeterminazione deve incontrare un contesto internazionale che lo consenta, in caso contrario o stati che non esistono per gli altri, come il Donbass, o solo annessioni – peraltro riconosciuta da pochi – come la Crimea o l’Ossezia del Sud. L’unico caso di divorzio consensuale, la separazione pacifica di Cechia e Slovacchia. Oggi è tempo di indipendenze in Europa? Sembrerebbe di no.

La Brexit ha sancito il ritorno di Wesfalia, la rinascita degli stati nazionali ottocenteschi. Muri e frontiere che risorgono, minacce di abbandono della Ue. La guerra permanente ad oriente in Ucraina, e a sud nel Mediterraneo allargato; il terrorismo jihadista, lo spostamento epocale di migliaia di persone per fame, guerra e siccità. Un quadro di instabilità che determina nelle persone paure continue. Non è tempo di referendum per le indipendenze delle nazioni senza stato, anche se venissero concessi dagli stati-nazione classici, probabilmente verrebbero persi.

In periodi come questi l’indipendenza viene vissuta come un ulteriore rischio personale. Non si lascia la casa conosciuta, anche se scomoda, per un’avventura quando il resto del mondo è sconvolto dalla tormenta. Rinunciare a qualsiasi prospettiva di autodeterminazione per luoghi come la Sardegna? No di certo. Paradossalmente l’unica possibilità è una Unione Europea che si configuri come confederazione, o se si vuole federazione, di stati indipendenti, dove anche le nazioni senza stato stiano in un piano di parità giuridica con le altre.

Non solo un sogno, ma l’unica prospettiva realistica, sempre che la parola abbia ancora un senso. Se dovesse crollare l’impianto europeo, il sogno verrebbe rimandato per chissà quanto tempo. La Storia però non procede per cammini razionali, anzi quella condizione gli appartiene raramente. Tutto può succedere, bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza, dovremmo avere una classe dirigente, non solo politica, consapevole delle scelte migliori per noi. Una classe dirigente che abbia contatti internazionali con chi poi decide negli scacchieri.

Vicente_Bacallar_SannaPotrebbe succedere come nel 1713, quando il diplomatico Bacallar Sanna cercava un re bavarese per la Sardegna e ritrovarsi con un Savoia. Perché allora perdemmo la possibilità di sceglierci un sovrano? Le condizioni internazionali, gli accordi tra le potenze europee avevano deciso altrimenti. È successo allora potrebbe capitare domani.
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Per correlazione: LUCIO GIORDANO, EDITORIALE SU ALGANEWS
BREXIT, LA MERAVIGLIOSA VENDETTA DI VAROUFAKIS
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Brexit, Ue, Italia e Referendum costituzionale
Europa_Bandiera_Europeasedia di VannitolaC’era una volta l’Europa. Una analisi del giornalista Corradino Mineo esperto osservatore della politica comunitaria.
In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle

C’era una volta l’Europa. Semplice, evocativo, non vanamente consolatorio. Il titolo più efficace è del Manifesto. Gli altri parlano di “tempesta”, la Stampa, di “colpo all’Europa”, il Corriere, di un “piano per salvarla”, La Repubblica. Oppure usano l’esortazione: “Europa svegliati!”, il Sole24Ore. Ricorderete: dopo aver vinto il suo referendum Tsipras fu umiliato dalla Merkel, da Hollande, da Renzi e tutti si accorsero che “Atene non aveva un piano B”. Ora sono gli aguzzini di Trsipras a non avere “un piano B” davanti alla porta che gli elettori britannici gli hanno sbattuto in faccia. Sì, certo, Draghi allaga borse e banche stampando euro, compra titoli del debito italiani e spagnoli per evitare che lo spread torni. Sono risposte necessarie ma il loro effetto è temporaneo: possono attutire il crollo delle borse -pauroso quello di Milano, meno 12,5% -, possono evitare che l’euro si apprezza dopo l’ondata di vendite che investe la sterlina. Ma poi? I commenti di Polito per il Corriere, Scalfari su Repubblica, Napoletano per il Sole, confermano questo vuoto di idee: chiedono – in modo più accorato e urgente il direttore del Sole24Ore- che i politici al governo in Francia, Germania e Italia, facciano ora quello che non hanno fatto fino a ieri: che diano all’Europa, con urgenza, sotto la pressione del Brexit, istituzioni federali e democratiche, che imbocchino per l’Europa la strada di una politica espansiva e più solidale. Dove erano questi commentatori quando gli stessi governanti strozzavano la piccola Grecia, in nome delle regole immutabili che presiedono al modo folle con cui si è costruita l’Europa dell’euro? Dove, quando in Spagna si infliggeva un colpo doppio ai lavoratori e alle famiglie in nome della ripresa: prima il licenziamento poi lo sfratto? Il piano di cui parla Repubblica nel titolo si limita a due mosse. La prima: fare presto, visto che Londra deve uscire, che esca subito. La seconda rimanda come al solito alla BCE e quello che può fare, per limitare i danni, l’onesto Draghi. Non basta. Perché -ha ragione Ezio Mauro- la malattia d’Europa è prima di tutto una malattia politica.
“L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi”, scrive l’ex direttore di Repubblica. “L’antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque”. Siamo arrivati fin qui perché : né Cameron né Merkel, né Hollande né Renzi, sono mai stati leader europei. Sono stati, e sono, leader nazionali pronti a usare a piene mani populismo e demagogia per confermarsi nel loro ruolo. Cameron ha voluto il referendum: pensava di domare gli istinti nazionalisti e secessionisti del suo paese e si è visto con che risultato. In tutti questi anni Merkel ha fatto credere ai tedeschi di aver generosamente contribuito a un progetto -l’Euro e l’Europa- nascondendo i vantaggi incassati dalla Germania nell’operazione e promettendone altri, grazie alla sua leadership e alla sua grinta nell’imporre “compiti a casa” e sacrifici ai partner piùdeboli. Hollande contro ogni evidenza ripete ai francesi “Ca va mieux” mentre strizza l’occhio alla Grandeur gollista, con le sue incursioni in Africa e in Medio Oriente. Renzi, toglie diritti e deprime la partecipazione democratica, come gli chiedono le istituzioni sovra nazionali, ma distribuisce bonus elettorali e sgravi fiscali, e mostra i muscoli da giovanotto con cui -promette- rimetterà in riga “i burocrati” di Bruxelles. E, con questo spettacolo, vorreste che il sentimento europeo vinca il risentimento? Naturalmente ogni segno di rinsavimento, ogni ritorno a una politica degna del nome, l’abbandono del populismo dei governi, sarebbe benvenuto. E non mancherò di segnalarlo e di lodarlo, qualora venisse. Per ora, lasciatemi constatare come questa classe politica e dirigente abbia fatto fallimento. C’erano un tempo elites europee.
Ottimista, nonostante tutto. Lo sapete, a me l’analisi spietata serve per vedere, comunque, la possibilità che si può aprire. Possibilità non vuol dire “probabilità”, è solo uno spiraglio per il quale, comunque, val la pena di battersi. Lo vedo, questo spiraglio, nel voto di domani in Spagna: se Podemos vincesse o arrivasse a un’incollatura dai popolari, forse potrebbe dar vita a un governo delle sinistre, l’ottusità del Psoe. Potrebbe proporre una Spagna federale in un’Europa federale. Anche in Gran Bretagna qualcosa può accadere: i giovani hanno votato contro Brexit, anche se sono andati alle urne in percentuale più bassa degli anziani “risentiti” che hanno scelto il Leave. In tutte le città ha prevalso il Remain, nelle campagne ha trionfato il Leave. Scozia e Irlanda del Nord cercheranno bloccare l’anacronistico nazionalismo imperiale britannico, a costo di disunire il regno, chiedendo di far parte dell’Europa e restando legati a Galles e England in uno stato federale molto lasco. Bernie Sanders, che non si è ritirato dalle primarie, dice però ai suoi millennials: votiamo per la Clinton e contro Trump. Non gli chiede di credere nella Clinton, di tornate sotto l’ala dell’establishment. Vuole almeno che il Partito cambi il suo programma, che si sposti a sinistra, mentre comincia a proporre la sua corsa entusiasmante come quella di un nuovo soggetto. In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle. Se Renzi non Renzi fosse un leader politico, e non solo un tattico che gioca con la politica, prenderebbe atto del no e cambierebbe il verso della sua azione di governo. Altrimenti, senza rimpianti, avremo un Cameron in meno anche in Italia. La rivoluzione copernicana della politica vuol dire oggi partire dai giovani. Quelli che sanno che lavoro sicuro non l’avranno, perché la ripresa che si annuncia fa persino crescere disuguaglianze e precariato. Quelli che lasciano il paese per studiare o fare ricerca, che ma sono pronti a tornare. Quelli che sono italiani o turchi, inglesi o nati in Siria ma hanno un progetto comune: trasformare il mondo al lume della ragione, costruire la convivenza nel diritto. Progetto europeo! L’unico vero progetto europeo. Vedete, fa più per l’Europa un prete che dice a Yerevan, sì’ quello degli armeni fu genocidio, degli esorcismi e delle promesse dei politici professionisti dopo Brexit
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NO NO NOOO
Non solo modifiche, è un’altra Costituzione
di Luigi Ferrajoli, su Left

La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni. È una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere.
Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.
Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque costituzione degna di questo nome.
La costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. È in primo luogo una costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedute-fiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso. Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e parlamento se questa riforma andasse in porto: un parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito.
Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra costituzione non sarà più la stessa perché non avrà più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti.

Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.
In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica; b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva; b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione; b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.
All’unico procedimento bicamerale attuale vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure, differenziati sulla base delle diverse materie ad esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di raffor­zamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione. È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.

Brexit, Ue, Italia e Referendum costituzionale

Europa_Bandiera_Europeasedia di VannitolaC’era una volta l’Europa. Una analisi del giornalista Corradino Mineo esperto osservatore della politica comunitaria.
In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle

C’era una volta l’Europa. Semplice, evocativo, non vanamente consolatorio. Il titolo più efficace è del Manifesto. Gli altri parlano di “tempesta”, la Stampa, di “colpo all’Europa”, il Corriere, di un “piano per salvarla”, La Repubblica. Oppure usano l’esortazione: “Europa svegliati!”, il Sole24Ore. Ricorderete: dopo aver vinto il suo referendum Tsipras fu umiliato dalla Merkel, da Hollande, da Renzi e tutti si accorsero che “Atene non aveva un piano B”. Ora sono gli aguzzini di Trsipras a non avere “un piano B” davanti alla porta che gli elettori britannici gli hanno sbattuto in faccia. Sì, certo, Draghi allaga borse e banche stampando euro, compra titoli del debito italiani e spagnoli per evitare che lo spread torni. Sono risposte necessarie ma il loro effetto è temporaneo: possono attutire il crollo delle borse -pauroso quello di Milano, meno 12,5% -, possono evitare che l’euro si apprezza dopo l’ondata di vendite che investe la sterlina. Ma poi? I commenti di Polito per il Corriere, Scalfari su Repubblica, Napoletano per il Sole, confermano questo vuoto di idee: chiedono – in modo più accorato e urgente il direttore del Sole24Ore- che i politici al governo in Francia, Germania e Italia, facciano ora quello che non hanno fatto fino a ieri: che diano all’Europa, con urgenza, sotto la pressione del Brexit, istituzioni federali e democratiche, che imbocchino per l’Europa la strada di una politica espansiva e più solidale. Dove erano questi commentatori quando gli stessi governanti strozzavano la piccola Grecia, in nome delle regole immutabili che presiedono al modo folle con cui si è costruita l’Europa dell’euro? Dove, quando in Spagna si infliggeva un colpo doppio ai lavoratori e alle famiglie in nome della ripresa: prima il licenziamento poi lo sfratto? Il piano di cui parla Repubblica nel titolo si limita a due mosse. La prima: fare presto, visto che Londra deve uscire, che esca subito. La seconda rimanda come al solito alla BCE e quello che può fare, per limitare i danni, l’onesto Draghi. Non basta. Perché -ha ragione Ezio Mauro- la malattia d’Europa è prima di tutto una malattia politica.
“L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi”, scrive l’ex direttore di Repubblica. “L’antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque”. Siamo arrivati fin qui perché : né Cameron né Merkel, né Hollande né Renzi, sono mai stati leader europei. Sono stati, e sono, leader nazionali pronti a usare a piene mani populismo e demagogia per confermarsi nel loro ruolo. Cameron ha voluto il referendum: pensava di domare gli istinti nazionalisti e secessionisti del suo paese e si è visto con che risultato. In tutti questi anni Merkel ha fatto credere ai tedeschi di aver generosamente contribuito a un progetto -l’Euro e l’Europa- nascondendo i vantaggi incassati dalla Germania nell’operazione e promettendone altri, grazie alla sua leadership e alla sua grinta nell’imporre “compiti a casa” e sacrifici ai partner piùdeboli. Hollande contro ogni evidenza ripete ai francesi “Ca va mieux” mentre strizza l’occhio alla Grandeur gollista, con le sue incursioni in Africa e in Medio Oriente. Renzi, toglie diritti e deprime la partecipazione democratica, come gli chiedono le istituzioni sovra nazionali, ma distribuisce bonus elettorali e sgravi fiscali, e mostra i muscoli da giovanotto con cui -promette- rimetterà in riga “i burocrati” di Bruxelles. E, con questo spettacolo, vorreste che il sentimento europeo vinca il risentimento? Naturalmente ogni segno di rinsavimento, ogni ritorno a una politica degna del nome, l’abbandono del populismo dei governi, sarebbe benvenuto. E non mancherò di segnalarlo e di lodarlo, qualora venisse. Per ora, lasciatemi constatare come questa classe politica e dirigente abbia fatto fallimento. C’erano un tempo elites europee.
Ottimista, nonostante tutto. Lo sapete, a me l’analisi spietata serve per vedere, comunque, la possibilità che si può aprire. Possibilità non vuol dire “probabilità”, è solo uno spiraglio per il quale, comunque, val la pena di battersi. Lo vedo, questo spiraglio, nel voto di domani in Spagna: se Podemos vincesse o arrivasse a un’incollatura dai popolari, forse potrebbe dar vita a un governo delle sinistre, l’ottusità del Psoe. Potrebbe proporre una Spagna federale in un’Europa federale. Anche in Gran Bretagna qualcosa può accadere: i giovani hanno votato contro Brexit, anche se sono andati alle urne in percentuale più bassa degli anziani “risentiti” che hanno scelto il Leave. In tutte le città ha prevalso il Remain, nelle campagne ha trionfato il Leave. Scozia e Irlanda del Nord cercheranno bloccare l’anacronistico nazionalismo imperiale britannico, a costo di disunire il regno, chiedendo di far parte dell’Europa e restando legati a Galles e England in uno stato federale molto lasco. Bernie Sanders, che non si è ritirato dalle primarie, dice però ai suoi millennials: votiamo per la Clinton e contro Trump. Non gli chiede di credere nella Clinton, di tornate sotto l’ala dell’establishment. Vuole almeno che il Partito cambi il suo programma, che si sposti a sinistra, mentre comincia a proporre la sua corsa entusiasmante come quella di un nuovo soggetto. In Italia c’è un’unica grande arma per salvare il salvabile: il referendum di ottobre. Trasformato in plebiscito pro o contro il realismo dei mercati, pro o contro l’Europa dorotea, pro o contro la politica che pretende deleghe in bianco, da un apprendista stregone che somiglia a Cameron come una goccia d’acqua a un’altra. Battiamoci perché vinca il No, perché si apra una vera fase costituente, con il dialogo con la destra senza inciucio nazareni con una apertura di credito (e con rispetto) nei confronti dei 5 Stelle. Se Renzi non Renzi fosse un leader politico, e non solo un tattico che gioca con la politica, prenderebbe atto del no e cambierebbe il verso della sua azione di governo. Altrimenti, senza rimpianti, avremo un Cameron in meno anche in Italia. La rivoluzione copernicana della politica vuol dire oggi partire dai giovani. Quelli che sanno che lavoro sicuro non l’avranno, perché la ripresa che si annuncia fa persino crescere disuguaglianze e precariato. Quelli che lasciano il paese per studiare o fare ricerca, che ma sono pronti a tornare. Quelli che sono italiani o turchi, inglesi o nati in Siria ma hanno un progetto comune: trasformare il mondo al lume della ragione, costruire la convivenza nel diritto. Progetto europeo! L’unico vero progetto europeo. Vedete, fa più per l’Europa un prete che dice a Yerevan, sì’ quello degli armeni fu genocidio, degli esorcismi e delle promesse dei politici professionisti dopo Brexit
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NO NO NOOO
Non solo modifiche, è un’altra Costituzione
di Luigi Ferrajoli, su Left

La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni. È una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere.
Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.
Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque costituzione degna di questo nome.
La costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. È in primo luogo una costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari. Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedute-fiume e notturne, ponendo più volte la fiducia come se si trattasse di una legge di indirizzo politico, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso. Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e parlamento se questa riforma andasse in porto: un parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione. L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito.
Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra costituzione non sarà più la stessa perché non avrà più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti.

Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. È vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.
In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi. Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure: a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica; b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi: b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva; b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione; b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.
All’unico procedimento bicamerale attuale vengono dunque sostituiti quattro tipi di procedure, differenziati sulla base delle diverse materie ad esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza». Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.

Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente. Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di raffor­zamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione. È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.

CAGLIARI. Dibattito su/per la città alla vigilia delle elezioni comunali

CCC 1 11 15 Cagliaricacitta2_2ape-innovativa2Pubblichiamo l’articolo di Roberto Loddo con il quale aderisce alla Coalizione Civica-Laboratorio Cagliari Città Capitale, considerandolo un interessante contributo al Dibattito su/per la città alla vigilia delle elezioni comunali (ormai è cominciata una lunga campagna elettorale).
Al riguardo ribadiamo il senso del nostro impegno come Aladinews ben delineato in una dichiarazione che ci sembra opportuno qui richiamare per una lettura integrale e di cui di seguito riportiamo un passaggio. Le campagne elettorali hanno aspetti ambivalenti e contraddittori: da un lato sono occasioni di strumentalizzazioni di ogni tipo, dall’altro costringono i cittadini e soprattutto le forze politiche a una disponibilità al dibattito, sconosciuta in altri periodi. Tocca a noi, opinione pubblica, fornire un terreno di confronto che diminuisca i rischi del primo aspetto e consenta ai cittadini elettori di farsi un’opinione di programmi e persone che li rappresentano, misurandone la credibilità. Altrimenti c’è la sfiducia e la conseguente diserzione delle urne, che, badate bene, fa premio a una classe politica il cui motto è diventato “meno siamo (gli elettori), meglio stiamo (gli eletti)”. Noi pratichiamo una linea virtuosa, quella della partecipazione popolare per la città di tutti. Ecco perchè pensando alle elezioni comunali di Cagliari del prossimo anno, prendendo atto che la campagna elettorale è ormai aperta, diamo spazio a un dibattito sulla città, senza limiti e pregiudizi o rispetto reverenziale per chicchessia. Con queste motivazioni abbiamo pubblicato una serie di interventi che ci sono sembrati particolarmente “utili alla causa” e continueremo nel tempo a pubblicarne di nuovi. Chiaramente la nostra è una scelta “arbitraria” che vuole esplicitamente portare acqua al mulino del rinnovamento nei programmi e nelle persone che vorremmo al governo della nostra città, obiettivo che ci vede precisamente schierati.
Cagliari Città Capitale
Un’alternativa di società a Cagliari
di Roberto Loddo

Nel 2016 vorrei a Cagliari una giunta comunale dal volto umano e un sindaco che sia garanzia di liberazione e trasformazione di una città fino ad ora nascosta, la città degli esclusi. Questa città è una delle protagoniste della violenza e delle contraddizioni della globalizzazione neoliberista. – segue

Siamo al governo, siamo il governo. Zitti e mosca!

zitti-e-mosca
Paolo Mieli e la presunta “sinistra” di scuola renziana

di Gonario Francesco Sedda*

Paolo Mieli nell’apparato propagandistico del blocco dominante non gioca il ruolo di ideologo d’assalto. È piuttosto un colto facilitatore di consenso che stempera i contorni di qualsiasi dissenso o contrasto confondendoli in una tranquilla nebbia soporifera. Ma non sempre. Talvolta l’esperto «cerchiobottista» si lascia travolgere dalla passione partigiana. Come in un recente editoriale [La nuova sinistra di scuola ateniese, Corriere della sera, 27 agosto 2015] dove si esercita in una costruzione retorica fatta di parole decontestualizzate (dunque, ambigue e distorcenti) e dove non esita a usare come argomenti “forti” (benché sia anche uno storiografo) squarci di storia visti dal buco della serratura. Il suo intento è denigrare qualsiasi tentativo di costruire una “sinistra” diversa da quella che piace a lui, ma riesce solo a scodellare una zuppa sfatta e ribollita.

1. «Proletari di tutto il mondo unitevi. Ma se […] vi capita di vincere le elezioni […], sparate a zero contro il vostro governo e pensate subito a dividervi. [..] Il “successo” del cofferatiano Luca Pastorino che alle recenti regionali in Liguria ha fatto perdere la democratica Raffaella Paita a vantaggio del berlusconiano Giovanni Toti (pur se è quasi assodato che la Paita sarebbe stata sconfitta anche se Pastorino fosse rimasto, per così dire, al suo fianco) potrebbe diventare il simbolo di un fenomeno di portata continentale».
Che meraviglia!, P. Mieli comincia con una citazione di K. Marx e F. Engels. Sembrerebbe che per lui l’unità sia il risultato di un’inclinazione assoluta (senza condizioni, a prescindere dalla condivisione di un programma fondamentale che garantisca anche il dissenso contingente). Non era così per i due rivoluzionari tedeschi che hanno chiuso con l’esortazione all’unità dei proletari solo dopo averli collocati dentro il processo di affermazione della borghesia capitalistica, dopo averne spiegato il loro ruolo e dopo aver indicato i compiti e gli obiettivi di breve-medio periodo e i loro fini nel lungo periodo (“lo scopo finale”).
Comunque l’eco della solenne citazione si spegne con lo strampalato richiamo al caso delle recenti elezioni regionali in Liguria con la lista guidata da L. Pastorino che avrebbe «fatto perdere la democratica Raffaella Paita a vantaggio del berlusconiano Giovanni Toti (pur se è quasi assodato che la Paita sarebbe stata sconfitta anche se Pastorino fosse rimasto, per così dire, al suo fianco)»!!! Ma … se R. Paita ha perso per demerito suo (e di chi l’ha sostenuta) – «è quasi assodato»!!! – perché mai il caso ligure dovrebbe «diventare il simbolo di un fenomeno di portata continentale»?

2. Avete mai sentito dire che P. Mieli fosse un simpatizzante di Syriza e apprezzasse la guida di A. Tsipras?
Y. Varoufakis, P. Lafazanis, A. Tsipras e gli altri pari erano: tutti esponenti di una “sinistra” che non saprebbe «fare i conti con la realtà», separata dalla grande famiglia europea liberaldemocratica (dei socialdemocratici, dei democratici e dei progressisti). Ma dopo che inaspettatamente A. Tsipras si è piegato al ricatto e alle imposizioni dell’oligarchia industrial-finanziaria europea, senza assolverlo del tutto per il suo passato e senza essere ancora sicuro riguardo alla direzione che prenderà nei prossimi mesi e anni, si sente di doverlo associare almeno idealmente alla “sinistra” di scuola renziana. E lo difende da P. Lafazanis e compagni confermando la loro infamia di fedeli alla “sinistra” di scuola ateniese con «lo scopo evidente […] di fare danno ad Alexis Tsipras anche se è improbabile che riescano a ottenere l’effetto Toti» – effetto che P. Mieli richiama ancora, nonostante abbia scritto che «è quasi assodato» che non sia mai esistito!!!
La “voluttà di sconfitta” sembrerebbe conquistare – osserva preoccupato il nostro editorialista – persino la maggioranza del Partito laburista del Regno Unito. Infatti «dopo la catastrofe elettorale di Ed Miliband del maggio scorso» potrebbe prenderne la guida J. Corbyn, oppositore della politica “diversamente thatcheriana” di T. Blair e deputato indisciplinato che «sostiene di aver votato ai Comuni ben cinquecento volte contro le indicazioni del proprio partito. […] Un record che, qui da noi, farà impallidire i seguaci di Miguel Gotor». Magari farà impallidire M. Gotor e i suoi seguaci, ma è poco probabile che faccia venir loro sufficiente coraggio.

3. Ma chi è il vero “ispiratore” continentale di questa politica bramosa di sconfitta che provoca «un gran danno alla … casa madre» e può «mandarla in rovina»? Secondo P. Mieli è un diabolico tedesco: Oskar Lafontaine. Politico certamente capace, ma inaffidabile. Ha osato persino tuonare “contro la dittatura dei mercati finanziari” e addirittura «da presidente [della Spd] non perse occasione per manifestare il suo dissenso nei confronti della politica di rigore imposta da Schröder».
Ma è ascoltando dal buco della serratura che P. Mieli completa il suo quadro denigratorio: «Nel 2008 l’ex leader socialdemocratico Helmut Schmidt, per spiegarne le fortune, ha sostenuto che Lafontaine gode di un grandissimo carisma (“come Adolf Hitler”, ha aggiunto non senza una qualche malizia). Nel 2013, Günter Grass, con toni meno eleganti, lo ha definito un “viscido traditore” specializzato nel far perdere la sinistra nel suo insieme».
Naturalmente i toni di P. Mieli dovrebbero essere tra la malizia e l’eleganza. O forse no: potrebbero essere quelli di un rozzo propagandista. Comunque questo diabolico e viscido nazi-traditore ha fondato (assieme ai rottami comunisti della ex-DDR) il partito Die Linke (La sinistra) che addirittura «ha collezionato una lunga serie di mini-successi». E a questo punto ha modo di manifestarsi la grande forza interpretativa di uno storico di razza come Paolo Mieli: «Così Die Linke è andata crescendo […] e, proprio in virtù di questi exploit, la sinistra tedesca ha sempre perso e Angela Dorothea Merkel ha avuto un’assicurazione a vita alla cancelleria di Berlino». E … così si spiega la storia contemporanea a un bambino che ripete la prima elementare per la terza volta. La colpa sarebbe solo degli altri, di chi provoca un gran danno alla “buona” casa madre, di chi la manda in rovina; la colpa sarebbe dei traditori specializzati «nel far perdere la sinistra nel suo insieme».
Se «la Spd negli ultimi dieci anni (dieci anni!) ha dovuto accontentarsi di stare in grande coalizione con la Merkel dal 2005 al 2009, fuori dal governo tra il 2009 e il 2013, e di nuovo dentro dal 2013»; e se qualche importante e disperato leader socialdemocratico «ha proposto al proprio partito di saltare il turno elettorale del 2017», di chi mai potrebbe essere la colpa? Di uno solo naturalmente: «Missione compiuta, compagno Lafontaine». Meno male che P. Mieli non ha concluso ironicamente (e ancora una volta indebitamente) con un’altra citazione di K. Marx: «Ben scavato, vecchia talpa!».
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* democraziaoggi loghetto anche su Democraziaoggi

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Tonino Desssì, su fb
Non per rovinare la radiosa giornata, ma pare che la situazione politica stia evolvendo in una certa direzione, che abbiamo avuto modo di prevedere. Non sono certo, viste le posizioni grilline e grillesche su xenofobia e migranti, indicative di qualcosa di più inquietante (ma quanto avvenuto a una recente festa dell’Unita’ rassicura poco anche sul PD), che si tratti di un fatto proprio positivo.
Certo è che anche in Sardegna qualcuno dovrebbe mettersi a ragionare. Avere un segretario regionale in pieno conflitto di interessi, proprio in questi giorni, agli occhi di tanti sardi mette inevitabilmente il PD alla pari con FI, volenti o nolenti e questo non sarà privo di conseguenze.
Vuoi vedere che ne usciranno con le ossa rotte sia i pesci pilota del giornalismo di destra, sia i soriani da culto della personalità nordcoreano?
massimo storico Grillo

Siamo al governo, siamo il governo. Zitti e mosca!

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Paolo Mieli e la presunta “sinistra” di scuola renziana

di Gonario Francesco Sedda*

Paolo Mieli nell’apparato propagandistico del blocco dominante non gioca il ruolo di ideologo d’assalto. È piuttosto un colto facilitatore di consenso che stempera i contorni di qualsiasi dissenso o contrasto confondendoli in una tranquilla nebbia soporifera. Ma non sempre. Talvolta l’esperto «cerchiobottista» si lascia travolgere dalla passione partigiana. Come in un recente editoriale [La nuova sinistra di scuola ateniese, Corriere della sera, 27 agosto 2015] dove si esercita in una costruzione retorica fatta di parole decontestualizzate (dunque, ambigue e distorcenti) e dove non esita a usare come argomenti “forti” (benché sia anche uno storiografo) squarci di storia visti dal buco della serratura. Il suo intento è denigrare qualsiasi tentativo di costruire una “sinistra” diversa da quella che piace a lui, ma riesce solo a scodellare una zuppa sfatta e ribollita.

1. «Proletari di tutto il mondo unitevi. Ma se […] vi capita di vincere le elezioni […], sparate a zero contro il vostro governo e pensate subito a dividervi. [..] Il “successo” del cofferatiano Luca Pastorino che alle recenti regionali in Liguria ha fatto perdere la democratica Raffaella Paita a vantaggio del berlusconiano Giovanni Toti (pur se è quasi assodato che la Paita sarebbe stata sconfitta anche se Pastorino fosse rimasto, per così dire, al suo fianco) potrebbe diventare il simbolo di un fenomeno di portata continentale».
Che meraviglia!, P. Mieli comincia con una citazione di K. Marx e F. Engels. Sembrerebbe che per lui l’unità sia il risultato di un’inclinazione assoluta (senza condizioni, a prescindere dalla condivisione di un programma fondamentale che garantisca anche il dissenso contingente). Non era così per i due rivoluzionari tedeschi che hanno chiuso con l’esortazione all’unità dei proletari solo dopo averli collocati dentro il processo di affermazione della borghesia capitalistica, dopo averne spiegato il loro ruolo e dopo aver indicato i compiti e gli obiettivi di breve-medio periodo e i loro fini nel lungo periodo (“lo scopo finale”).
Comunque l’eco della solenne citazione si spegne con lo strampalato richiamo al caso delle recenti elezioni regionali in Liguria con la lista guidata da L. Pastorino che avrebbe «fatto perdere la democratica Raffaella Paita a vantaggio del berlusconiano Giovanni Toti (pur se è quasi assodato che la Paita sarebbe stata sconfitta anche se Pastorino fosse rimasto, per così dire, al suo fianco)»!!! Ma … se R. Paita ha perso per demerito suo (e di chi l’ha sostenuta) – «è quasi assodato»!!! – perché mai il caso ligure dovrebbe «diventare il simbolo di un fenomeno di portata continentale»?

2. Avete mai sentito dire che P. Mieli fosse un simpatizzante di Syriza e apprezzasse la guida di A. Tsipras?
Y. Varoufakis, P. Lafazanis, A. Tsipras e gli altri pari erano: tutti esponenti di una “sinistra” che non saprebbe «fare i conti con la realtà», separata dalla grande famiglia europea liberaldemocratica (dei socialdemocratici, dei democratici e dei progressisti). Ma dopo che inaspettatamente A. Tsipras si è piegato al ricatto e alle imposizioni dell’oligarchia industrial-finanziaria europea, senza assolverlo del tutto per il suo passato e senza essere ancora sicuro riguardo alla direzione che prenderà nei prossimi mesi e anni, si sente di doverlo associare almeno idealmente alla “sinistra” di scuola renziana. E lo difende da P. Lafazanis e compagni confermando la loro infamia di fedeli alla “sinistra” di scuola ateniese con «lo scopo evidente […] di fare danno ad Alexis Tsipras anche se è improbabile che riescano a ottenere l’effetto Toti» – effetto che P. Mieli richiama ancora, nonostante abbia scritto che «è quasi assodato» che non sia mai esistito!!!
La “voluttà di sconfitta” sembrerebbe conquistare – osserva preoccupato il nostro editorialista – persino la maggioranza del Partito laburista del Regno Unito. Infatti «dopo la catastrofe elettorale di Ed Miliband del maggio scorso» potrebbe prenderne la guida J. Corbyn, oppositore della politica “diversamente thatcheriana” di T. Blair e deputato indisciplinato che «sostiene di aver votato ai Comuni ben cinquecento volte contro le indicazioni del proprio partito. […] Un record che, qui da noi, farà impallidire i seguaci di Miguel Gotor». Magari farà impallidire M. Gotor e i suoi seguaci, ma è poco probabile che faccia venir loro sufficiente coraggio.

3. Ma chi è il vero “ispiratore” continentale di questa politica bramosa di sconfitta che provoca «un gran danno alla … casa madre» e può «mandarla in rovina»? Secondo P. Mieli è un diabolico tedesco: Oskar Lafontaine. Politico certamente capace, ma inaffidabile. Ha osato persino tuonare “contro la dittatura dei mercati finanziari” e addirittura «da presidente [della Spd] non perse occasione per manifestare il suo dissenso nei confronti della politica di rigore imposta da Schröder».
Ma è ascoltando dal buco della serratura che P. Mieli completa il suo quadro denigratorio: «Nel 2008 l’ex leader socialdemocratico Helmut Schmidt, per spiegarne le fortune, ha sostenuto che Lafontaine gode di un grandissimo carisma (“come Adolf Hitler”, ha aggiunto non senza una qualche malizia). Nel 2013, Günter Grass, con toni meno eleganti, lo ha definito un “viscido traditore” specializzato nel far perdere la sinistra nel suo insieme».
Naturalmente i toni di P. Mieli dovrebbero essere tra la malizia e l’eleganza. O forse no: potrebbero essere quelli di un rozzo propagandista. Comunque questo diabolico e viscido nazi-traditore ha fondato (assieme ai rottami comunisti della ex-DDR) il partito Die Linke (La sinistra) che addirittura «ha collezionato una lunga serie di mini-successi». E a questo punto ha modo di manifestarsi la grande forza interpretativa di uno storico di razza come Paolo Mieli: «Così Die Linke è andata crescendo […] e, proprio in virtù di questi exploit, la sinistra tedesca ha sempre perso e Angela Dorothea Merkel ha avuto un’assicurazione a vita alla cancelleria di Berlino». E … così si spiega la storia contemporanea a un bambino che ripete la prima elementare per la terza volta. La colpa sarebbe solo degli altri, di chi provoca un gran danno alla “buona” casa madre, di chi la manda in rovina; la colpa sarebbe dei traditori specializzati «nel far perdere la sinistra nel suo insieme».
Se «la Spd negli ultimi dieci anni (dieci anni!) ha dovuto accontentarsi di stare in grande coalizione con la Merkel dal 2005 al 2009, fuori dal governo tra il 2009 e il 2013, e di nuovo dentro dal 2013»; e se qualche importante e disperato leader socialdemocratico «ha proposto al proprio partito di saltare il turno elettorale del 2017», di chi mai potrebbe essere la colpa? Di uno solo naturalmente: «Missione compiuta, compagno Lafontaine». Meno male che P. Mieli non ha concluso ironicamente (e ancora una volta indebitamente) con un’altra citazione di K. Marx: «Ben scavato, vecchia talpa!».
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* democraziaoggi loghetto anche su Democraziaoggi

con gli occhiali di Piero e con la sedia di Vanni…

lev trotsky2GLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413 – Su aladinpensiero di un 21 agosto. Dove si ricorda Leone Trotsky e altre cose: http://www.aladinpensiero.it/
http://www.aladinpensiero.it/?p=14188
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sedia di Vannitola Democrazia
In Grecia il capo del Governo, Tsipras, eletto dal popolo in una consultazione elettorale, dopo una travagliata fase storica e l’avvio di importanti processi per il salvataggio dell’economia del suo paese, sente la necessità di restituire la parola agli elettori per avere una riconferma del proprio mandato politico che rafforzi il suo operato e conferisca reale rappresentatività alla sua persona. In Italia, il capo del Governo, Renzi, è l’unico a credere ed affermare di avere già messo in atto grandi ed epocali riforme (es la scuola e sappiamo che è ancora tutto in alto mare) e si ripropone per le prossime settimane di realizzarne altre ancora e perfino di modificare ulteriormente la Costituzione. Renzi non è stato eletto in una competizione elettorale ma non è neppure sfiorato dal pensiero di sottoporre il proprio operato al giudizio degli elettori indicendo elezioni anticipate. O meglio, si riserva di farlo tra qualche anno quando la sua azione “riformatrice” sarà completata. Conclusione? Vedete un po’ voi.
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disperazioneMafia
Come tanti altri individui indignati vorrei commentare la vicenda dei funerali del Sig. Vittorio Casamonica nella città di Roma.
Ho scelto di farlo riportando integralmente una dichiarazione di don Luigi Ciotti.
«Le scene viste fuori dalla chiesa dove – con uno sfarzo e un dispiegamento di mezzi, banda musicale, elicottero che lanciava petali di rose, che immaginiamo autorizzato – si sono svolti i funerali di Vittorio Casamonica, non possono lasciarci indifferenti.

Non è qui ovviamente in discussione il diritto di una famiglia di celebrare i funerali di un suo membro e la partecipazione di amici e conoscenti.

Grave è l’evidente strumentalizzazione di un rito religioso per rafforzare prestigio e posizioni di potere. Sappiamo che le mafie non hanno mai mancato di ostentare una religiosità di facciata, “foglia di fico” delle loro imprese criminali.

Una volta di più, e a maggior ragione dopo la scomunica di Papa Francesco dei mafiosi e dei loro complici, è compito della Chiesa denunciarla e ribadire che non può esserci compatibilità fra la violenza mafiosa e il Vangelo».
don Luigi Ciotti, presidente nazionale Libera

DIBATTITO. Syriza, dal muro dell’oligarchia liberista al vicolo cieco dell’accordo: un’altra strada è possibile?

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di Gonario Francesco Sedda

1. Si è detto che Syriza aveva solo due possibilità di scelta: a) non accettare l’umiliante imposizione dell’Europa e uscire dall’eurozona; b) accettarla per non uscire dall’eurozona, come ha fatto. Ma aveva un’altra possibilità: non accettarla e non uscire dall’eurozona secondo il proprio programma. Poteva lasciare al potere politico dell’oligarchia industrial-finanziaria la responsabilità sia di far uscire eventualmente la Grecia dall’Europa liberista sia di continuare a portare avanti la sua feroce azione antipopolare. Un partito di “sinistra” che vuole vivere e crescere senza snaturarsi può vincere o perdere solo sul proprio programma; non andrà molto lontano se pretende di vincere col suo programma e poi governare con quello del suo avversario. Chi può dire che una Syriza che tornasse all’opposizione sulla base del proprio programma otterrebbe meno per il popolo greco di quanto possa dare restando al governo per realizzare una politica ferocemente antipopolare?

2. Vi è chi spera ancora una volta che, “baciando il rospo”, Syriza lo possa trasformare in un principe o almeno in un aristocratico di un qualche grado. Soprattutto se il partito di Tsipras resterà unito. Allora il peggio potrebbe “forse” essere evitato. Tuttavia è da vedere se l’unità nel dissenso basterà perché sia meno incerto evitare il peggio. Una Syriza che resti unita è sicuramente più forte di una che si divida, ma non sarà comunque abbastanza forte per neutralizzare politicamente ed economicamente gli effetti negativi dell’accordo.
Chi crede al lato magico del “bacio del rospo” può anche invitare a tenere conto dei reali “rapporti di forza”, ma non ne trae tutte le conseguenze. Essi infatti vengono invocati per “giustificare” l’accettazione dell’accordo leonino imposto dall’oligarchia industrial-finanziaria europea, ma scompaiono quando si tratta di valutare la possibilità di gestire quell’accordo evitando o riducendo al minimo gli effetti negativi della sua carica ferocemente antipopolare. Bisognerà vedere – si dice – se Tsipras avrà la forza di governare il dopo accordo … E quando bisognerà vedere? E dove è finita l’analisi dei “rapporti di forza”?
Intanto basti osservare che, se Syriza è stata così debole da accettare il ricatto del terrorismo mercantile dell’Europa “reale”, riesce difficile immaginare come – nei tempi imposti dall’accordo leonino – possa diventare abbastanza forte per rendere quel ricatto inefficace.
- segue –

L’Ecologia integrale dell’Enciclica di Papa Francesco Laudato si’

papa Francesc Rocca 15lug15

Preservare la prospettiva unica del Papa: l’ecologia integrale
di Leonardo Boff

Papa Francesco ha fatto un grande cambiamento nella riflessione ecologica per passare dall’ecologia ambientale all’ecologia integrale. Ciò include l’ecologia culturale sociopolitica, mentale, educativa, l’etica e la spiritualità. C’è il pericolo che questa visione integrale possa essere assimilata nel consueto discorso ambientale, senza rendersi conto che tutte le cose, la conoscenza e le istanze sono interconnesse. Cioè, il riscaldamento globale ha a che fare con la industrializzazione selvaggia, la povertà di gran parte dell’umanità è legata al modello di produzione, distribuzione e consumo, la violenza contro la terra e gli ecosistemi è una deriva dal paradigma di dominio che è alla base della nostra civilizzazione dominante già da quattro secoli, che l’antropocentrismo è una conseguenza della comprensione illusoria secondo la quale che possediamo le cose e che queste hanno l’unico senso solo in quanto servono per il nostro piacere.

Ora è proprio questa cosmologia (insieme di idee, valori, progetti, sogni e le istituzioni) che fa dire al Papa: “Non abbiamo mai offeso e maltrattato la nostra casa comune come negli ultimi due secoli” (n. 53).

Un cambio di direzione
Come superare questa strada pericolosa? Il Papa risponde: “Con un cambio di direzione” e ancora di più con la volontà di “delineare grandi percorsi di dialogo per aiutarci ad uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando (n. 163). Se non facciamo nulla, andremo incontro al peggio. Ma il Papa si fida della capacità creativa degli esseri umani che, insieme, possono rendere possibile il grande ideale, “un solo mondo e un progetto comune” (n. 164).

Ben diversa è la visione imperante e imperiale prevalente nelle menti di chi controlla la finanza e la direzione politica mondiale: “un solo mondo e un solo impero”.

Per affrontare i molti aspetti critici della nostra situazione, il Papa propone l’ecologia integrale. E ne indica le giuste basi: “Dal momento che tutto è strettamente relazionato e che i problemi attuali richiedono uno sguardo che tenga conto di tutti i fattori di crisi globale, propongo che ci fermiamo ora a riflettere pensare sui diversi aspetti di una ecologia integrale che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali” (n. 137).

Il presupposto teorico è derivato dalla nuova cosmologia, dalla fisica quantistica, dalla nuova biologia, in breve si tratta del nuovo paradigma contemporaneo che coinvolge la teoria della complessità e del caos (distruttivo e generativo). In questa visione lo ribadiva uno dei fondatori della fisica quantistica, Werner Heisenberg:

Tutto è relazione
“Tutto ha a che fare con tutto in tutti i punti e in ogni momento; tutto è relazione e nulla esiste al di fuori della relazione”.

Questa lettura del Papa ripetuta innumerevoli volte, costituisce il vero cantus firmus delle sue spiegazioni. Sicuramente la più bella e poetica delle formulazioni la troviamo al n. 92, dove sottolinea: “Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo insieme come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ogni sua creatura e ci lega anche tra noi, con tenero affetto, al Fratello Sole, alla Sorella Luna, al Fratello fiume e alla Madre Terra”.

Questa visione esiste da quasi un secolo, ma non è mai riuscita a vincere in politica e nell’orientamento dei problemi sociali e umani. Tutti rimangono ancora ostaggi del vecchio paradigma che isola i problemi e prevede di trovare una soluzione specifica per ogni esigenza, ignarando che questa soluzione può essere dannosa per un altro problema. Ad esempio, il problema della sterilità del terreno viene affrontato con nutrienti chimici, che, a loro volta, penetrano nel terreno e raggiungono la falda delle acque acquifere avvelenandole.

L’enciclica ci servirà come strumento educativo per appropriarsi di questa visione inclusiva e integrale. Ad esempio, come l’enciclica dice: “Quando si parla di ‘ambiente’, facciamo riferimento anche a una particolare relazione, quella tra la natura e la società che lo abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una semplice parte della nostra vita. Noi siamo inclusi in essa, siamo parte di essa” (n. 139).

E continua a darci esempi convincenti: “Oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, il lavorativi, urbani, e dalla relazione di ogni persona con se stessa, che genera un certo modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente “[n. 141].

Se tutto è relazione, allora la salute umana dipende dalla salute della Terra e degli ecosistemi. Tutte le istanze si intrecciano, nel bene e nel male. Questa è la trama della realtà, non opaca e superficiale ma complessa e altamente correlata a tutto.

Se pensassimo ai nostri problemi interni in questo gioco di inter-retro-relazioni non avremmo tante contraddizioni tra i ministeri e le azioni del governo. Il Papa suggerisce le strade in modo preciso e ci mette in grado di affrontare il nostro futuro comune.

Teilhard de Chardin aveva ragione quando negli anni ’30 del secolo scorso ha scritto: “L’era delle nazioni è passata. Il compito che ci attende, se non periamo, è quello di costruire la Terra”. Prendendoci cura della Terra con tenero affetto fraterno e nello spirito di San Francesco d’Assisi e di Francesco di Roma, possiamo proseguire “camminando e cantando”, come conclude l’enciclica, pieni di speranza. Abbiamo ancora un futuro e a noi spetta il compito di rischiararlo.
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- L’illustrazione di Papa Francesco è tratta dal periodico Rocca 15 luglio 2015.
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Preservar la perspectiva singular del Papa: la ecología integral
14/07/2015
Leonardo Boff ft microdi Leonardo Boff
.
El Papa Francisco ha realizado un enorme cambio en el discurso ecológico al pasar de la ecología ambiental a la ecología integral. Esta incluye la ecología político-social, la mental, la cultural, la educacional, la ética y la espiritualidad. Existe el peligro de que esta visión integral sea asimilada dentro del discurso ambiental habitual, no dándose cuenta de que todas las cosas, saberes e instancias están interligadas. Es decir, el calentamiento global tiene que ver con la furia industrialista, la pobreza de buena parte de la humanidad está relacionada con el modo de producción, distribución y consumo, la violencia contra la Tierra y los ecosistemas deriva del paradigma de dominación que está en la base de nuestra civilización dominante desde hace ya cuatro siglos, que el antropocentrismo es consecuencia de la comprensión ilusoria de que somos dueños de la cosas y que ellas solo tienen sentido en la medida en que sirven para nuestro disfrute.

Esa cosmología (conjunto de ideas, valores, proyectos, sueños e instituciones) lleva al Papa a decir: “nunca hemos ofendido y maltratado a nuestra casa común como en los dos últimos siglos” (nº 53).

¿Cómo superar esa ruta peligrosa? El Papa responde; “con un cambio de rumbo” y todavía más con la disposición de “delinear grandes caminos de diálogo que nos ayuden a salir de la espiral de autodestrucción en la que nos estamos sumergiendo (163). Si no hacemos nada, podremos ir al encuentro de lo peor. Pero el Papa confía en la capacidad creativa de los seres humanos que juntos podrán formular el gran ideal: “un solo mundo en un proyecto común” (164).

Bien distinta es la visión imperante e imperial presente en la mente de quienes controlan las finanzas y los rumbos de las políticas mundiales: “un solo mundo y un solo imperio”.

Para enfrentar los múltiples aspectos críticos de nuestra situación el papa propone la ecología integral. Y le da el fundamento correcto: “Dado que todo está íntimamente relacionado, y que los problemas actuales requieren una mirada que tenga en cuenta todos los factores de la crisis mundial, propongo que nos detengamos ahora a pensar en los distintos aspectos de una ecología integral, que incorpore claramente las dimensiones humanas y sociales” (137).

El presupuesto teórico se deriva de la nueva cosmología, de la física cuántica, de la nueva biología, en una palabra, del nuevo paradigma contemporáneo que implica la teoría de la complejidad y del caos (destructivo y generativo). En esa visión, lo repetía uno de los fundadores de la física cuántica, Werner Heisenberg; “todo tiene que ver con todo en todos los puntos y en todos los momentos; todo es relación y nada existe fuera de la relación”.

Esta lectura la repite el Papa innumerables veces, formando el tonus firmus de sus exposiciones. Seguramente la más bella y poética de las formulaciones la encontramos en el nº 92: “Todo está relacionado, y todos los seres humanos estamos juntos como hermanos y hermanas en una maravillosa peregrinación, entrelazados por el amor que Dios tiene a cada una de sus criaturas y que nos une también, con tierno cariño, al hermano sol, a la hermana luna, al hermano río y a la madre Tierra”.

Esa visión existe desde hace ya casi un siglo, pero nunca consiguió imponerse en la política y en la orientación de los problemas sociales y humanos. Todos seguimos siendo rehenes del viejo paradigma que aísla los problemas y busca una solución específica para cada uno sin darse cuenta de que esa solución puede ser dañina para otro de los problemas. Por ejemplo, el problema de la infertilidad de los suelos se resuelve con nutrientes químicos que, a su vez, penetran en la tierra y alcanzan el nivel freático de las aguas de los acuíferos envenenándolos.

La encíclica podrá servirnos de instrumento educativo para apropiarnos de esta visión inclusiva e integral. Por ejemplo, como afirma la encíclica: “Cuando se habla de «medio ambiente», se indica particularmente una relación, la que existe entre la naturaleza y la sociedad que la habita. Esto nos impide entender la naturaleza como algo separado de nosotros o como un mero marco de nuestra vida. Estamos incluidos en ella, somos parte de ella” (139).

Y continúa dándonos ejemplos convincentes: “Hoy el análisis de los problemas ambientales es inseparable del análisis de los contextos humanos, familiares, laborales, urbanos, y de la relación de cada persona consigo misma, que genera un determinado modo de relacionarse con los demás y con el ambiente” [115].

Si todo es relación, entonces la propia salud humana depende de la salud de la Tierra y de los ecosistemas. Todas las instancias se entrelazan para bien o para mal. Esa es la textura de la realidad, no opaca y rasa sino compleja y altamente relacionada con todo.

Si pensásemos nuestros problemas nacionales en ese juego de inter-retro-relaciones no tendríamos tantas contradicciones entre los ministerios y las acciones gubernamentales. El papa nos sugiere caminos, que son certeros y nos pueden sacar de la ansiedad en la que nos encontramos frente a nuestro futuro común.

Teilhard de Chardin tenía razón cuando en los años 30 del siglo pasado escribía: “la era de la naciones ya pasó. La tarea que tenemos por delante, si no perecemos, es construir la Tierra”, Cuidando la Tierra con tierno y fraterno afecto en el espíritu de san Francisco de Asís y de Francisco de Roma, podremos seguir “caminando y cantando”, como concluye la encíclica, llenos de esperanza. Todavía tenemos futuro y vamos a irradiar.

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L’utopia di Papa Francesco
13 Luglio 2015

democraziaoggidi Francesco Cocco, su Democraziaoggi

Ideologia ed utopia sono parole ormai inusuali. Eppure non riesco a trovare termini più appropriati per definire l’enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco. Uso il termine “Ideologia” nell’ accezione corrente per definire un sistema organico di pensiero ed “utopia” come indicazione di un orizzonte raggiungibile anche se molto distante dall’attuale modo di essere della società. Credo sia una definizione accettabile sia per i non credenti che per i credenti. Aggiungo che trattasi di un’ ideologia scientifica, naturalmente in un significato molto diverso dalla cosiddetta “scientificità” dell’ ideologia marxiana, dove la scientificità era in contrapposizione alle visioni del socialismo utopistico che erano andate affermandosi a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Nell’enciclica “Laudato sì” tale carattere nasce dal puntuale riferimento alle elaborazioni che le varie discipline sono andate enucleando sulle condizioni del Pianeta in relazione all’indiscriminato sfruttamento delle sue risorse da parte dell’ uomo.
I mass-media si sono occupati ampiamente di questo documento papale. Era difficile tacere per l’allarme in esso contenuto sui destini del Pianeta e per esso dell’Umanità. Così il pensiero di Papa Bergoglio pare svilupparsi in un‘orizzonte puramente francescano secondo l’adagio sul fraticello d’Assisi che “ parlava agli uccelli, ammansiva i lupi e gli alberi erano suoi fratelli”. Adagio che non tiene conto di quella che è stata la vera natura di San Francesco.
Il ” primo uomo dell’età moderna” lo definiva Padre Balducci nella bella biografia di qualche decennio fa. Questo richiamo forse ci consente di affermare che come San Francesco è il primo uomo dell’ età moderna così Papa Bergoglio è forse il primo uomo del XXI secolo. Il Santo d’Assisi usciva da una “corporalità chiusa”, proiettava il suo io nella natura, creava le condizioni per la nascita delle scienze naturali. Papa Bergoglio supera la visione falsa e angusta dell’uomo che di fatto si autolimita in un falso dominio della natura. Visione angusta che non sa guardare alla complessità della natura e non sa proiettarsi verso la salvaguardia degli interessi delle generazioni future.
Ideologia, quella di Papa Francesco, che è anche un grido d’allarme per le condizioni in cui l’uomo sta riducendo l’ambiente. E qui si ferma l’interersse dei mass-media. I miei molti anni mi consentono di testimoniare ben altro interesse suscitato nelle forze sociali e segnatamente nei partiti da encicliche come la “Pacem in terris” . Ricordo l’ ampia discussione nel PCI e nei sindacati per quel manifesto di pace di Giovanni XXIII. Ora silenzio. Eppure “Laudato Sì” è un ampio programma di azione sociale al quale un movimento politico che si vorrebbe richiamare all’ interesse generale della società e particolarmente a quello dei lavoratori potrebbe e dovrebbe attingere a piene mani.
Forse è proprio dalle potenzialità e dalla lungimiranza di questa enciclica che nasce il silenzio. Papa Francesco non si limita, infatti, a denunciare il baratro verso il quale stiamo facendo precipitare il Pianeta e con esso l’ umanità. Fa molto di più, indica i rimedi: “ l’umanità è chiamata a prender coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo.” Non è un generico richiamo ad uno stile di vita sobrio, antitetico a certo esibizionismo consumistico. Fa molto di più , fa specifico riferimento ai modelli di produzione. Certo non usa la locuzione “modello di produzione”, sarebbe stato uno slittamento di linguaggio verso certa elaborazione dei classici del movimento operaio. E’ chiaro però che “stili di produzione” ,anche alla luce della complessiva elaborazione dell’ Enciclica, non può che essere riferito al modello di produzione capitalistico. Per altro verso è esplicito il riferimento persino alla necessità di forme di “decrescita” per una più equa redistribuzione dei beni di cui l’umanità può disporre.
Vi pare che oggi vi sia una qualche forza politica o sindacale che possa far propri i valori dell’ Enciclica?. Gli slogan gridati nelle piazze sono di segno molto diverso e talvolta persino opposto. Forse proprio in questa contrarietà ad una visione populista sta la natura profetica dell’ Enciclica. In questo guardare alle esigenze profonde dell’ umanità va individuata la grande utopia di Papa Francesco. L’ utopia non è sempre visione dell’ impossibile , è anche capacità d’intravedere il futuro. E questa capacità di guardare al futuro è la cifra dell’ Enciclica che Papa Francesco offre all’ umanità.

Un COMMENTO
di Andrea Pubusa

Anche a me sembra che i media snobbino Francesco per le sue posizioni, che così profondamente Francesco Cocco individua e illustra. Questo Papa, come del resto già il Cristo, sta dalla parte degli umili contro i potenti e ne paga le conseguenze. D’altra parte, lui il capitale finanziario lo ha visto all’opera con tutta la sua forza devastante in Argentina, un paese ricchissimo, ridotto nella più nera miseria qualche tempo fa dai grandi potentati economici interni e stranieri.
Ha ragione Francesco Cocco quando mette in evidenza che la scarsa discussione sull’Enciclica di Bergoglio nasce dall’indeguatezza dei sindacati e dall’assenza di una sinistra seria. Il Papa sconta la stessa solitudine di Tsipras. Ci vorrebbe un movimento di opinione e di lotta a sostegno di entrambi.

Rocca luglio 2015

Abitare, custodire, servire la casa comune. L’Ecologia integrale nel messaggio dell’Enciclica Laudato si’

papa Francesc Rocca 15lug15
Preservar la perspectiva singular del Papa: la ecología integral
14/07/2015
Leonardo Boff ft microdi Leonardo Boff
.
El Papa Francisco ha realizado un enorme cambio en el discurso ecológico al pasar de la ecología ambiental a la ecología integral. Esta incluye la ecología político-social, la mental, la cultural, la educacional, la ética y la espiritualidad. Existe el peligro de que esta visión integral sea asimilada dentro del discurso ambiental habitual, no dándose cuenta de que todas las cosas, saberes e instancias están interligadas. Es decir, el calentamiento global tiene que ver con la furia industrialista, la pobreza de buena parte de la humanidad está relacionada con el modo de producción, distribución y consumo, la violencia contra la Tierra y los ecosistemas deriva del paradigma de dominación que está en la base de nuestra civilización dominante desde hace ya cuatro siglos, que el antropocentrismo es consecuencia de la comprensión ilusoria de que somos dueños de la cosas y que ellas solo tienen sentido en la medida en que sirven para nuestro disfrute.

Esa cosmología (conjunto de ideas, valores, proyectos, sueños e instituciones) lleva al Papa a decir: “nunca hemos ofendido y maltratado a nuestra casa común como en los dos últimos siglos” (nº 53).

¿Cómo superar esa ruta peligrosa? El Papa responde; “con un cambio de rumbo” y todavía más con la disposición de “delinear grandes caminos de diálogo que nos ayuden a salir de la espiral de autodestrucción en la que nos estamos sumergiendo (163). Si no hacemos nada, podremos ir al encuentro de lo peor. Pero el Papa confía en la capacidad creativa de los seres humanos que juntos podrán formular el gran ideal: “un solo mundo en un proyecto común” (164).

Bien distinta es la visión imperante e imperial presente en la mente de quienes controlan las finanzas y los rumbos de las políticas mundiales: “un solo mundo y un solo imperio”.

Para enfrentar los múltiples aspectos críticos de nuestra situación el papa propone la ecología integral. Y le da el fundamento correcto: “Dado que todo está íntimamente relacionado, y que los problemas actuales requieren una mirada que tenga en cuenta todos los factores de la crisis mundial, propongo que nos detengamos ahora a pensar en los distintos aspectos de una ecología integral, que incorpore claramente las dimensiones humanas y sociales” (137).

El presupuesto teórico se deriva de la nueva cosmología, de la física cuántica, de la nueva biología, en una palabra, del nuevo paradigma contemporáneo que implica la teoría de la complejidad y del caos (destructivo y generativo). En esa visión, lo repetía uno de los fundadores de la física cuántica, Werner Heisenberg; “todo tiene que ver con todo en todos los puntos y en todos los momentos; todo es relación y nada existe fuera de la relación”.

Esta lectura la repite el Papa innumerables veces, formando el tonus firmus de sus exposiciones. Seguramente la más bella y poética de las formulaciones la encontramos en el nº 92: “Todo está relacionado, y todos los seres humanos estamos juntos como hermanos y hermanas en una maravillosa peregrinación, entrelazados por el amor que Dios tiene a cada una de sus criaturas y que nos une también, con tierno cariño, al hermano sol, a la hermana luna, al hermano río y a la madre Tierra”.

Esa visión existe desde hace ya casi un siglo, pero nunca consiguió imponerse en la política y en la orientación de los problemas sociales y humanos. Todos seguimos siendo rehenes del viejo paradigma que aísla los problemas y busca una solución específica para cada uno sin darse cuenta de que esa solución puede ser dañina para otro de los problemas. Por ejemplo, el problema de la infertilidad de los suelos se resuelve con nutrientes químicos que, a su vez, penetran en la tierra y alcanzan el nivel freático de las aguas de los acuíferos envenenándolos.

La encíclica podrá servirnos de instrumento educativo para apropiarnos de esta visión inclusiva e integral. Por ejemplo, como afirma la encíclica: “Cuando se habla de «medio ambiente», se indica particularmente una relación, la que existe entre la naturaleza y la sociedad que la habita. Esto nos impide entender la naturaleza como algo separado de nosotros o como un mero marco de nuestra vida. Estamos incluidos en ella, somos parte de ella” (139).

Y continúa dándonos ejemplos convincentes: “Hoy el análisis de los problemas ambientales es inseparable del análisis de los contextos humanos, familiares, laborales, urbanos, y de la relación de cada persona consigo misma, que genera un determinado modo de relacionarse con los demás y con el ambiente” [115].

Si todo es relación, entonces la propia salud humana depende de la salud de la Tierra y de los ecosistemas. Todas las instancias se entrelazan para bien o para mal. Esa es la textura de la realidad, no opaca y rasa sino compleja y altamente relacionada con todo.

Si pensásemos nuestros problemas nacionales en ese juego de inter-retro-relaciones no tendríamos tantas contradicciones entre los ministerios y las acciones gubernamentales. El papa nos sugiere caminos, que son certeros y nos pueden sacar de la ansiedad en la que nos encontramos frente a nuestro futuro común.

Teilhard de Chardin tenía razón cuando en los años 30 del siglo pasado escribía: “la era de la naciones ya pasó. La tarea que tenemos por delante, si no perecemos, es construir la Tierra”, Cuidando la Tierra con tierno y fraterno afecto en el espíritu de san Francisco de Asís y de Francisco de Roma, podremos seguir “caminando y cantando”, como concluye la encíclica, llenos de esperanza. Todavía tenemos futuro y vamos a irradiar.

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To preserve Pope Francis’ singular perspective: holistic ecology
14/07/2015
by Leonardo Boff

Pope Francis has effected enormous change in the ecological discourse by moving from environmental ecology to holistic ecology. Holistic ecology includes socio-political, mental, cultural, educational, ethical, and spiritual ecology. The danger exists that this holistic vision may be assimilated into the usual environmental discourse, without noticing that all things, knowledge, and events are interrelated. That is, global warming results from industrial excesses, the poverty of large portions of humanity is related to the means of production, distribution and consumption, violence against the Earth and her ecosystems derives from the paradigm of domination that has underlain the predominant civilization for four centuries already, anthropocentrism is a consequence of the illusory belief that we own all things and that they only have meaning to the degree that they serve our pleasure.

That cosmology (groupings of ideas, values, projects, dreams and institutions) moves Pope Francis to say: “never have we offended and mistreated our Common Home as we have done in the last two centuries” (nº 53).

How can we overcome that dangerous path? Answers the Pope: “by changing direction,” and still more, with the disposition to “delineate great paths of dialogue that help us emerge from the spiral of self-destruction in which we are submerging ourselves (163). If we do nothing, we could encounter the worst. But the Pope trusts in the creative capacity of humans, who together will be able to formulate the great ideal: “a single world in a common project” (164).

The prevailing imperial vision of those who control the finances and destinies of world politics is very different: “Only one world and only one empire”.

To address the many critical aspects of our situation the Pope proposes holistic ecology. And he gives it the right foundation: “Given that all are intimately related and that the present problems require a vision that takes into account all the factors of the world crisis, I propose that we stop now to think of the different aspects of a holistic ecology that clearly incorporates the human and social dimensions” (137).

The theoretical proposal derives from the new cosmology, quantum physics, and the new biology, in a word, from the contemporary paradigm deriving from the theory of complexity and chaos (destructive and generative). Along those lines, Werner Heisenberg, one of the founders of quantum physics, would repeat: “all has to do with all, at all points and in all moments; all is relationship and nothing exists outside of the relationship”.

The Pope repeats this innumerable times, forming the tonus firmus of his statements. We find in nº 92 what is surely the most beautiful and poetic of his formulations: “All is related, and all human beings are together as brothers and sisters in a marvelous pilgrimage, intertwined by the love that God has for each and every one of His creatures and that also binds us, with tender love, to Brother Sun, to Sister Moon, to Brother River and to Mother Earth”.

That vision has existed for almost a century already, but could never insert itself into politics or the field of social and human problems. We all continue as hostages of the old paradigm that isolates problems and seeks a specific solution for each, without realizing that a solution for one can magnify another problem. For example, the problem of the soils’ infertility is addressed with chemical nutrients that, once used, penetrate the Earth into the water tables and aquifers, poisoning them.

The encyclical can serve as an educational instrument to help us make our own that inclusive and holistic vision. For example, as the encyclical affirms: “When one speaks of the «environment» particular mention is made of the relationship that exists between nature and the society that inhabits it. This makes us understand nature as something apart from us, or merely as the framework for our life. But we are included in her, we are part of nature” (139).

And it continues, giving us convincing examples: “The present analysis of the environmental problems is inseparable from the analysis of the human, family, labor, urban contexts, and the relationship of each person with him or herself, that creates a certain mode of relating with others and with the environment” [115].

If everything is relationship, then human health itself depends of the health of the Earth and her ecosystems. All events are intertwined, for better or worse. That is the texture of reality, neither opaque nor level, but complex and highly interrelated.

If we thought of our national problems as the interplay of inter-retro-relationships, we would not have so many contradictions between ministries and governmental actions. Pope Francis suggests paths that are certain and can free us from the anxious state in which we now find ourselves, facing our common future.

Pierre Teilhard de Chardin was right when he wrote in the 1930s: “the era of nation-states has already passed. The task before us, if we don’t perish, is to build the Earth.” Caring for the Earth with tender and fraternal affection in the spirit of Saint Francis of Assisi and Francis of Rome, we can continue “walking and singing” as the encyclical ends, filled with hope.

We still have a future, and we will shine.
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- Leonardo Boff.
- Intervista a RaiNews.
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Preservare la prospettiva unica del Papa: l’ecologia integrale
di Leonardo Boff
(versione in fase di correzione)

Papa Francesco ha fatto un grande cambiamento nella riflessione ecologica per passare dall’ecologia ambientale all’ecologia integrale. Ciò include l’ecologia culturale sociopolitica, mentale, educativa, l’etica e la spiritualità. C’è il pericolo che questa visione integrale possa essere assimilata nel consueto discorso ambientale, senza rendersi conto che tutte le cose, la conoscenza e le istanze sono interconnesse. Cioè, il riscaldamento globale ha a che fare con la industrializzazione selvaggia, la povertà di gran parte dell’umanità è legata al modello di produzione, distribuzione e consumo, la violenza contro la terra e gli ecosistemi è una deriva dal paradigma di dominio che è alla base della nostra civilizzazione dominante già da quattro secoli, che l’antropocentrismo è una conseguenza della comprensione illusoria secondo la quale che possediamo le cose e che queste hanno l’unico senso solo in quanto servono per il nostro piacere.

Ora è proprio questa cosmologia (insieme di idee, valori, progetti, sogni e le istituzioni) che fa dire al Papa: “Non abbiamo mai offeso e maltrattato la nostra casa comune come negli ultimi due secoli” (n. 53).

Un cambio di direzione
Come superare questa strada pericolosa? Il Papa risponde: “Con un cambio di direzione” e ancora di più con la volontà di “delineare grandi percorsi di dialogo per aiutarci ad uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando (n. 163). Se non facciamo nulla, andremo incontro al peggio. Ma il Papa si fida della capacità creativa degli esseri umani che, insieme, possono rendere possibile il grande ideale, “un solo mondo e un progetto comune” (n. 164).

Ben diversa è la visione imperante e imperiale prevalente nelle menti di chi controlla la finanza e la direzione politica mondiale: “un solo mondo e un solo impero”.

Per affrontare i molti aspetti critici della nostra situazione, il Papa propone l’ecologia integrale. E ne indica le giuste basi: “Dal momento che tutto è strettamente relazionato e che i problemi attuali richiedono uno sguardo che tenga conto di tutti i fattori di crisi globale, propongo che ci fermiamo ora a riflettere pensare sui diversi aspetti di una ecologia integrale che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali” (n. 137).

Il presupposto teorico è derivato dalla nuova cosmologia, dalla fisica quantistica, dalla nuova biologia, in breve si tratta del nuovo paradigma contemporaneo che coinvolge la teoria della complessità e del caos (distruttivo e generativo). In questa visione lo ribadiva uno dei fondatori della fisica quantistica, Werner Heisenberg:

Tutto è relazione
“Tutto ha a che fare con tutto in tutti i punti e in ogni momento; tutto è relazione e nulla esiste al di fuori della relazione”.

Questa lettura del Papa ripetuta innumerevoli volte, costituisce il vero cantus firmus delle sue spiegazioni. Sicuramente la più bella e poetica delle formulazioni la troviamo al n. 92, dove sottolinea: “Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo insieme come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ogni sua creatura e ci lega anche tra noi, con tenero affetto, al Fratello Sole, alla Sorella Luna, al Fratello fiume e alla Madre Terra”.

Questa visione esiste da quasi un secolo, ma non è mai riuscita a vincere in politica e nell’orientamento dei problemi sociali e umani. Tutti rimangono ancora ostaggi del vecchio paradigma che isola i problemi e prevede di trovare una soluzione specifica per ogni esigenza, ignarando che questa soluzione può essere dannosa per un altro problema. Ad esempio, il problema della sterilità del terreno viene affrontato con nutrienti chimici, che, a loro volta, penetrano nel terreno e raggiungono la falda delle acque acquifere avvelenandole.

L’enciclica ci servirà come strumento educativo per appropriarsi di questa visione inclusiva e integrale. Ad esempio, come l’enciclica dice: “Quando si parla di ‘ambiente’, facciamo riferimento anche a una particolare relazione, quella tra la natura e la società che lo abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una semplice parte della nostra vita. Noi siamo inclusi in essa, siamo parte di essa” (n. 139).

E continua a darci esempi convincenti: “Oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, il lavorativi, urbani, e dalla relazione di ogni persona con se stessa, che genera un certo modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente “[n. 141].

Se tutto è relazione, allora la salute umana dipende dalla salute della Terra e degli ecosistemi. Tutte le istanze si intrecciano, nel bene e nel male. Questa è la trama della realtà, non opaca e superficiale ma complessa e altamente correlata a tutto.

Se pensassimo ai nostri problemi interni in questo gioco di inter-retro-relazioni non avremmo tante contraddizioni tra i ministeri e le azioni del governo. Il Papa suggerisce le strade in modo preciso e ci mette in grado di affrontare il nostro futuro comune.

Teilhard de Chardin aveva ragione quando negli anni ’30 del secolo scorso ha scritto: “L’era delle nazioni è passata. Il compito che ci attende, se non periamo, è quello di costruire la Terra”. Prendendoci cura della Terra con tenero affetto fraterno e nello spirito di San Francesco d’Assisi e di Francesco di Roma, possiamo proseguire “camminando e cantando”, come conclude l’enciclica, pieni di speranza. Abbiamo ancora un futuro e a noi spetta il compito di rischiararlo.
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- L’illustrazione di Papa Francesco è tratta dal periodico Rocca 15 luglio 2015.
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L’utopia di Papa Francesco
13 Luglio 2015

democraziaoggidi Francesco Cocco, su Democraziaoggi

Ideologia ed utopia sono parole ormai inusuali. Eppure non riesco a trovare termini più appropriati per definire l’enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco. Uso il termine “Ideologia” nell’ accezione corrente per definire un sistema organico di pensiero ed “utopia” come indicazione di un orizzonte raggiungibile anche se molto distante dall’attuale modo di essere della società. Credo sia una definizione accettabile sia per i non credenti che per i credenti. Aggiungo che trattasi di un’ ideologia scientifica, naturalmente in un significato molto diverso dalla cosiddetta “scientificità” dell’ ideologia marxiana, dove la scientificità era in contrapposizione alle visioni del socialismo utopistico che erano andate affermandosi a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Nell’enciclica “Laudato sì” tale carattere nasce dal puntuale riferimento alle elaborazioni che le varie discipline sono andate enucleando sulle condizioni del Pianeta in relazione all’indiscriminato sfruttamento delle sue risorse da parte dell’ uomo.
I mass-media si sono occupati ampiamente di questo documento papale. Era difficile tacere per l’allarme in esso contenuto sui destini del Pianeta e per esso dell’Umanità. Così il pensiero di Papa Bergoglio pare svilupparsi in un‘orizzonte puramente francescano secondo l’adagio sul fraticello d’Assisi che “ parlava agli uccelli, ammansiva i lupi e gli alberi erano suoi fratelli”. Adagio che non tiene conto di quella che è stata la vera natura di San Francesco.
Il ” primo uomo dell’età moderna” lo definiva Padre Balducci nella bella biografia di qualche decennio fa. Questo richiamo forse ci consente di affermare che come San Francesco è il primo uomo dell’ età moderna così Papa Bergoglio è forse il primo uomo del XXI secolo. Il Santo d’Assisi usciva da una “corporalità chiusa”, proiettava il suo io nella natura, creava le condizioni per la nascita delle scienze naturali. Papa Bergoglio supera la visione falsa e angusta dell’uomo che di fatto si autolimita in un falso dominio della natura. Visione angusta che non sa guardare alla complessità della natura e non sa proiettarsi verso la salvaguardia degli interessi delle generazioni future.
Ideologia, quella di Papa Francesco, che è anche un grido d’allarme per le condizioni in cui l’uomo sta riducendo l’ambiente. E qui si ferma l’interersse dei mass-media. I miei molti anni mi consentono di testimoniare ben altro interesse suscitato nelle forze sociali e segnatamente nei partiti da encicliche come la “Pacem in terris” . Ricordo l’ ampia discussione nel PCI e nei sindacati per quel manifesto di pace di Giovanni XXIII. Ora silenzio. Eppure “Laudato Sì” è un ampio programma di azione sociale al quale un movimento politico che si vorrebbe richiamare all’ interesse generale della società e particolarmente a quello dei lavoratori potrebbe e dovrebbe attingere a piene mani.
Forse è proprio dalle potenzialità e dalla lungimiranza di questa enciclica che nasce il silenzio. Papa Francesco non si limita, infatti, a denunciare il baratro verso il quale stiamo facendo precipitare il Pianeta e con esso l’ umanità. Fa molto di più, indica i rimedi: “ l’umanità è chiamata a prender coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo.” Non è un generico richiamo ad uno stile di vita sobrio, antitetico a certo esibizionismo consumistico. Fa molto di più , fa specifico riferimento ai modelli di produzione. Certo non usa la locuzione “modello di produzione”, sarebbe stato uno slittamento di linguaggio verso certa elaborazione dei classici del movimento operaio. E’ chiaro però che “stili di produzione” ,anche alla luce della complessiva elaborazione dell’ Enciclica, non può che essere riferito al modello di produzione capitalistico. Per altro verso è esplicito il riferimento persino alla necessità di forme di “decrescita” per una più equa redistribuzione dei beni di cui l’umanità può disporre.
Vi pare che oggi vi sia una qualche forza politica o sindacale che possa far propri i valori dell’ Enciclica?. Gli slogan gridati nelle piazze sono di segno molto diverso e talvolta persino opposto. Forse proprio in questa contrarietà ad una visione populista sta la natura profetica dell’ Enciclica. In questo guardare alle esigenze profonde dell’ umanità va individuata la grande utopia di Papa Francesco. L’ utopia non è sempre visione dell’ impossibile , è anche capacità d’intravedere il futuro. E questa capacità di guardare al futuro è la cifra dell’ Enciclica che Papa Francesco offre all’ umanità.

Un COMMENTO
di Andrea Pubusa

Anche a me sembra che i media snobbino Francesco per le sue posizioni, che così profondamente Francesco Cocco individua e illustra. Questo Papa, come del resto già il Cristo, sta dalla parte degli umili contro i potenti e ne paga le conseguenze. D’altra parte, lui il capitale finanziario lo ha visto all’opera con tutta la sua forza devastante in Argentina, un paese ricchissimo, ridotto nella più nera miseria qualche tempo fa dai grandi potentati economici interni e stranieri.
Ha ragione Francesco Cocco quando mette in evidenza che la scarsa discussione sull’Enciclica di Bergoglio nasce dall’indeguatezza dei sindacati e dall’assenza di una sinistra seria. Il Papa sconta la stessa solitudine di Tsipras. Ci vorrebbe un movimento di opinione e di lotta a sostegno di entrambi.

Rocca luglio 2015

con la Grecia per l’Europa dei Popoli

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GRECIA – “NON IN MIO NOME”, NOT IN MY NAME. Nessun accordo europeo può umiliare la dignità di un popolo che ha sofferto e soffre. Non è questa l’Europa che molti europei desiderano. La sovranità di una nazione non può essere calpestata in nessun caso. Federalismo solidale e unione politica sulla base della solidarietà e della giustizia. E’ questa l’Europa che abbiamo sempre desiderato. Qualunque altra cosa dovessero stabilire i tecnocrati europei non mi rappresenta, “NON IN MIO NOME”.

Governo della Regione. Si può fare di più? La Sardegna ne ha bisogno

DIBATTITO – VALUTAZIONI e DIBATTITO Elias Megel_2————————————————————————-

Altri tre anni e mezzo in queste condizioni sono la morte
di Andrea Sotgiu

La Grecia detta, ancora una volta, la rotta. Quante volte ha spinto i suoi Ulisse a solcare i mari per approdare in terre lontane, compresa la Sardegna, l’isola d’argento? Come l’antica Pizia, indica la dolorosa verità di oggi: la proletarizzazione e il declino del popolo europeo, il più civile del mondo; la morte della borghesia, classe di recente invenzione; il monopolio di èlites senza patria e senza nazione che cinicamente usano il linguaggio del rigore ma si comportano come i chicago boys di cilena memoria, senza sporcarsi le mani con colpi di stato.

Un suo giovane figlio, nato da chi cacciò i colonelli ma non la corrotta élite di evasori fiscali, loro base sociale, realizza l’eterno sogno di democrazia. Istruito e consapevole è riuscito a trasformare un paese, il cui Pil vale il 2% di quello europeo, nel centro del mondo. Ha dato speranza a tutte le periferie e a chi crede che la politica e la democrazia, sono il vero antidoto ai chicago boys in grisaglia.

Quale lezione può arrivare all’isola d’argento? Ad una Sardegna digiuna da tempo di personalità di peso nelle rappresentanze parlamentari a Bruxelles, a Roma, a Cagliari?

Ragionando su quanto è accaduto tra Grecia e oligarchie finanziarie non è più un problema di dimensione o di Pil. Si è capito, come dicono molti analisti, che il problema è la presenza di classi dirigenti consapevoli del loro ruolo e della loro responsabilità; di èlites con piena sovranità che smettano di essere litigiose e autorecluse in recinti e il cui familismo, di sangue e di clan, è famelico quanto castrante.

A leggere i quotidiani sardi l’isola d’argento è ben lontana da questa Grecia e non c’è nessun Alexis Tsipras all’orizzonte. I litigi all’interno di una stessa famiglia politica – parlare di partito è troppo – e tra famiglie di una stessa maggioranza è la prevalente attività della politica, a destra e a manca. Scontri tra rappresentanze cooptate nelle istituzioni e che, forse per questo, trascorrono il tempo ad insultarsi piuttosto che ad esercitare il mandato costituzionale.

I loro profili FB sono eloquenti. Slogans su slogans a favore di gruppi dirigenti in campo, a cui in verità le popolazioni, hanno, da tempo, tolto consenso, o contro chi minaccia di non voler seguire gli ordini del clan. Esponenti che giocano nello stesso campionato ma con maglia diversa a seconda della partita. Segretari di partito che falliscono il loro mandato e che per occultare le sconfitte ricorrono a tatticismi e furbizie cercando capri espiatori invece di ammettere la propria inaffidabilità e lasciare a chi è più portato e capace.

Non è meglio la giunta regionale. Si è ormai capito che è in affanno, camuffato da una compulsiva frenesia di annunci con contorno di foto. Che confusione tra comunicazione e informazione! Un gruppo catapultato senza avere alcuna visione della Sardegna e in difficoltà persino nell’ordinaria amministrazione. Guardare per credere l’attività di gran parte degli assessorati o degli uffici. Non basta che assessori vadano a zonzo in quell’inaudito sagrificio che è la Sardegna estiva dove variegate umanità credono di approdare ad Itaca ma in verità nel paese di bengodi, ospiti di un circo autorefenziale, indifferente a quanto accade nei territori negli altri mesi.

Che modello quei greci che ballano e cantano ma esprimono anche gente capace di dignità, etica, orgoglio che ha cacciato dal tempio i mercanti che usavano partiti ed istituzioni per i propri affari. Arriverà quel tempo nell’isola d’argento? Indizi sono all’orizzonte. Bisogna saperli cogliere e prendere il vento.

Francesco Pigliaru azzeri tutto. Faccia una giunta formata da persone di comprovata competenza, senza badare ad appartenenze o a prossimità. Prescinda da una sedicente maggioranza e da presunte maggioranze nella maggioranza! Nella realtà non esistono più e veri o presunti stati generali sono ormai ridicoli. Ricordano troppo i mille tavoli di Cappellacci. Se non è capace di tale autonomia, legittimata dall’investitura che il popolo sardo gli diede in un tempo che sembra oggi lontanissimo, faccia come Alexis Tsipras: ridia la parola al popolo sardo. Altri tre anni e mezzo in queste condizioni sono la morte certificata dell’isola d’argento.
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By sardegnasoprattutto / 8 luglio 2015 / Società & Politica
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Nel riquadro il presidente Francesco Pigliaru in un fotomontaggio della rivista La Collina di Serdiana.

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Esiste in Sardegna una politica industriale?
di Raffaele Deidda

Parrebbe di no, a giudicare dalle considerazioni degli addetti ai lavori che rientrano a pieno titolo nella fattispecie degli stakeholder spesso citata dall’assessore della Programmazione. A cominciare dal Segretario Generale della Cgil Susanna Camusso che, a settembre del 2014 a Buggerru per l’anniversario dell’eccidio, ha rilanciato i temi del lavoro e della vertenza Sardegna, denunciando l’assenza, nell’isola, di una politica industriale. Posizione confermata dai sindacati regionali dei chimici nel mese di gennaio 2015: “Assistiamo finora ad una certa continuità tra la Giunta Cappellacci e la Giunta Pigliaru sulle mancate scelte di politica industriale ed energetica, perchè questo esecutivo non ha fatto molto di più“.

I chimici hanno rilevato come l’azione politica della Giunta regionale sia indirizzata verso un modello di sviluppo economico nel quale l’industria è abbandonata a se stessa, invece di essere indirizzata verso un modello di sviluppo integrato. Non sembra abbia prodotto particolari effetti il contributo, in quell’occasione, del presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau che ha sostenuto: “Questa amministrazione regionale deve fare scelte ragionate in tempi rapidissimi, pena il fallimento di tutta la Sardegna e non solo del settore chimico e industriale. Non ci sono i tempi per fare valutazioni di lunga durata“.

Il segretario generale della Fiom Maurizio Landini, a Nuoro nello scorso mese di maggio, ha ribadito che in Sardegna manca una politica industriale e un piano straordinario del lavoro. Oltre una visione del futuro che coniughi la difesa dell’esistente produttivamente valido con politiche nuove.

Parlano la stessa lingua questi sindacalisti. Sono giustamente stakeholder, in quanto portatori di interessi dei lavoratori che intravedono in Sardegna l’esistenza di un fenomeno che va oltre il NIMBY (Not in my back yard: non nel mio cortile di casa), riferito alle ostilità, talvolta preconcette, sugli insediamenti energetico-industriali, al NIMTO (Not in my turn office: non durante il mio mandato). Certo sarebbe poco “onorevole” per una Giunta Regionale, o anche per un singolo assessore, non assumersi le responsabilità che gli competono, rifugiandosi nell’immobilismo in attesa di tempi migliori. O, forse, di un banale rimpasto che potrebbe annullare gli incarichi o modificare i mandati e i ruoli.

Tornano le domande: A che punto è l’elaborazione del PEARS (Piano Energetico Ambientale Regionale), strumento attraverso il quale l’Amministrazione Regionale persegue obiettivi di carattere energetico, socio-economico e ambientale? A che punto é, poi, l’approvvigionamento di gas metano una volta deciso l’abbandono del GALSI? Sono sufficienti le rassicurazione dell’assessore regionale dell’Industria che nel mese di maggio ha comunicato: “Stiamo mantenendo fede agli impegni presi, la Giunta farà scelte rapide nell’interesse dei sardi e della Sardegna. La questione energetica è strategica per disegnare il rilancio dell’industria nella nostra Regione”?

Sembra di risentire le dichiarazioni del presidente del Consiglio Regionale di inizio anno: “Questa amministrazione regionale deve fare scelte ragionate in tempi rapidissimi, pena il fallimento di tutta la Sardegna e non solo del settore chimico e industriale”. Tempi rapidissimi quanto? Se la questione energetico-socio.economico-ambientale era la priorità di una Giunta insediatasi sedici mesi fa, ricca anche di competenze accademiche tali da consentire di individuare in tempi rapidissimi le soluzioni più idonee ai problemi lasciati irrisolti dalla pessima gestione Cappellacci?

E’ consolatoria la notizia che entro il 2015 dovrebbe essere avviata ad Ottana un’attività per il riciclo della plastica con l’impiego di circa 30 lavoratori? A fronte dell’insuccesso del Contratto d’Area del 1998, presentato come strumento utile per rilanciare l’industria chimica in crisi, finanziato con oltre 110 milioni di euro per creare 1300 posti di lavoro. In gran parte “saltati” a causa dei progetti non andati in porto.

C’è o non c’è, quindi, una politica industriale regionale? Non lasciamo ai posteri l’ardua sentenza perché, come richiamato da Andrea Sotgiu in questa stessa rivista, altri tre anni e mezzo in queste condizioni sono la morte certificata dell’isola d’argento.
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Raffaele Deidda By sardegnasoprattutto / 9 luglio 2015 / Economia & Lavoro
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serieta-signori

Europa dei popoli: ripartiamo dalla Grecia

imageIl Polifemo accecato image
di Nicolò Migheli

Non occorre aver fatto il classico. Nel nostro immaginario la Grecia porta con sé i miti fondanti di quel che siamo. In questi anni convulsi in molti hanno scritto che un’ Europa senza la Grecia non è. La stessa Europa è un mito greco, una principessa figlia del re dei Fenici rapita da Zeus travestito da toro bianco. Oggi però l’Europa della finanza apolide che governa, più che la principessa omonima ricorda il figlio Radamanto, che da re e legislatore sapiente si muta in giudice dei morti. Perché in questo l’UE è stata trasformata.

Una classe morta insensibile ad ogni richiesta che contravvenga il principio della remunerazione a breve del capitale finanziario. Chi non è d’accordo, chi ritiene che non debbano essere i ceti deboli a pagare, è sprezzantemente definito populista. Altra parola della neo lingua che ha colonizzato l’immaginario. I padri fondatori avevano pensato ad una unione tra pari, il voto tedesco identico a quello del minuscolo Lussemburgo.

L’Unione monetaria, in assenza di uno stato federale, ha trasformato quel sogno in incubo. In virtù dei differenziali economici e dei tassi di interesse bancari, si trasferisce ricchezza dai paesi poveri a quelli ricchi. Al di là delle vicende dei prestiti greci, su cui non vi è accordo neanche tra gli esperti, una cosa è sicura, la Germania è  più ricca e la Grecia sempre più povera. Responsabilità anche della classe dirigente greca, i cui partiti allora maggioritari, Nea Democratia e Pasok, sono stati definiti l’unica mafia che abbia fallito. È stato chiaro fin da subito però che la troika non aveva nessun interesse a negoziare diverse condizioni con Syritza. Tsipras e Varoufakis trattati come mendicanti.

L’obbiettivo primo era abbatterli. In un sistema ben oliato, la religione dell’austerità del costi quel che costi, non poteva accettare alcuna eterodossia. Nella teologia luterana manca il purgatorio, esiste il paradiso o l’inferno. Il debito in tedesco è sinonimo di colpa che va scontata sino in fondo. Però non è possibile mettere spalle al muro l’interlocutore, ogni buona negoziazione questo predica. Invece gli arroganti padroni d’Europa sono rimasti insensibili, sicuri che alla fine la paura del default avrebbe ridotto a miti consigli chiunque.

Il referendum greco è stato il tentativo disperato di Tsipras per avere un investimento popolare che lo legittimasse di più. È andata bene. Il NO a quelle proposte, riporta la Grecia a Bruxelles come membro della UE, di pari valore agli altri. Una randellata sulla testa di quella “sinistra” come Renzi e Martin Schulz, degni dei loro predecessori che nel 1914 fecero prevalere gli interessi delle èlite guerrafondaie su quelle delle classi popolari europee. Quel NO riapre la partita della democrazia nell’UE.

Un segnale forte contro le politiche di austerità che non risolvendo, anzi peggiorando il debito pubblico, hanno avuto come effetto l’impoverimento di milioni di persone. Il Polifemo della troika è stato accecato. E come il ciclope le borse e l’establishment burocratico reagiranno dando mazzate a destra e a manca. Non si rendono conto però che se gli europei non riescono a risolvere una crisi che riguarda il 2% del Pil dell’Unione, cosa può succedere quando si dovrà affrontare una crisi più grave?

Tirando la corda greca, gli gnomi di Francoforte e Bruxelles hanno spezzato il bene più prezioso, quello della fiducia nei loro confronti e nelle istituzioni europee. Venerdì scorso è scoppiata la bolla della finanza cinese col rischio di sommovimenti mondiali. Si racconta che frau Merkel da studentessa, nelle lezioni di tuffi, si lanciasse dal trampolino dopo che era già suonata la campanella. Troppo tardi. La speranza è che la paura di oggi faccia rinsavire le classi dirigenti europee. L’Europa è stata costruita dalle generazioni che avevano vissuto la II GM, le attuali èlite non hanno memoria delle guerre civili europee.

Questa è la realtà e i rischi di guerra si fanno più probabili. Il ministro della difesa polacco a seguito di esercitazioni militari, riferendosi alla paura della Russia, ha dichiarato che il tempo della pace in Europa era durato troppo. A 180 chilometri da Cagliari, la Tunisia dichiara lo stato di guerra con l’ Isis- Daesch. Ancora una volta siamo in mano ai sonnambuli? Parrebbe di sì.

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By sardegnasoprattutto / 6 luglio 2015 / Società & Politica
toro zeus rapisce europa

Europa dei popoli: ripartiamo dalla Grecia!

Europa flag“Molti possono ignorare la volontà di imageIun governo ma nessuno può ignorare la volontà di un popolo” Alexis Tsipras
In Grecia, in Europa e nel mondo.