Risultato della ricerca: Umberto Allegretti

È online il manifesto sardo trecentosei.

pintor il manifesto sardoIl numero 306
Il sommario
Luigi Pintor, l’eretico che voleva cambiare il mondo (red), Le criticità del MES (Roberto Mirasola), Lo Statuto dei Lavoratori compie 50 anni (Graziano Pintori), L’impossibile ritorno alla normalità dopo la crisi pandemica (Gianfranco Sabattini), Turchia e dintorni. La Turchia tra zone di influenza e autoritarismo (Emanuela Locci), Coronavirus e privatizzazione delle spiagge (Stefano Deliperi), Riconsiderare il lavoro (Guido Viale), I medici ospedalieri in stand by chiedono di poter lavorare (Claudia Zuncheddu), Appello per il reddito e la garanzia del lavoro culturale in Sardegna (red), Le politiche per il Mezzogiorno e per la Sardegna. Il Piano Sud 2030 (Umberto Allegretti), Un maggio di pace per la riconversione della Rwm (red), I limiti della didattica a distanza (Fiorella Farinelli), Il diritto di sfrattare (Fiammetta Cani), Un combattente e medico palestinese amico del popolo sardo (Paolo Pisu), Incontro con Francesca Sassu (red).

Le politiche nazionali per il Mezzogiorno e per la Sardegna. Sud: un Piano c’è, bisogna conoscerlo, migliorarlo, attuarlo!

lampadadialadmicromicro1L’articolo di Umberto Allegretti, che proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori, è il nono contributo condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno comune che qui si richiama.
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Il Piano Sud 2030
di Umberto Allegretti*

Nel febbraio 2020 è stato reso noto un documento politico di grande interesse, il Piano Sud 2030. Sviluppo e coesione per l’Italia, curato dal Ministro per il Sud e la politica territoriale Giuseppe Provenzano. Benché la lotta al Covid-19 abbia accentrato l’attenzione pubblica, il discorso sul Piano Sud va portato avanti, perché riguarda uno dei temi fondamentali per il futuro del Paese e deve trovare un ruolo nel piano di ripresa dopo l’epidemia. Lo stesso presentarsi di quest’ultima in termini diversi nelle varie regioni, col paradossale rovesciamento verificatosi in un evento, forse non casualmente, risultato più grave nel Nord rispetto al Sud, attira l’attenzione sulla polarizzazione tra le due grandi parti dell’Italia.
Il Piano Sud 2030 ha il merito di presentare un vasto quadro delle politiche per il Mezzogiorno, che dovrebbe dar luogo a una serie di interventi legislativi, amministrativi e di azione concreta, se vuol superare il livello di un mero atto di indirizzo politico. La questione stessa dell’insularità, di cui si parla tanto in Sardegna, vi si inquadra direttamente e può trovarvi esatta collocazione, senza bisogno di passare attraverso la complessità del procedimento proprio di una legge di revisione costituzionale, e senza che occorra insistere troppo sulle peculiarità che essa porrebbe, per ambientarle in un quadro non limitato alla sola situazione insulare.
Il discorso segna una ripresa di interesse, dopo anni di messa in ombra, per la questione meridionale, ed è coerente e incisivo. Fa tesoro dell’esperienza storica e di quella recente, ponendo «la sfida del Sud» come «la più difficile di tutta la nostra storia unitaria» e citando giustamente in premessa la preoccupazione del Capo dello Stato per l’aggravamento del divario tra Nord e Sud del Paese. Il carattere decisivo per il Nord stesso del superamento di questo andamento delle cose sta al fondo di tutta l’argomentazione. Società e Stato – anche questo rilievo è prezioso – devono entrambi combattere su questo fronte.
Si tratta dunque di andare oltre questi due ultimi decenni, ivi compreso, si direbbe, il superamento di un vizio della riforma costituzionale del 2001: quello di aver soppresso nella Costituzione la menzione diretta della «valorizzazione» del Mezzogiorno e delle Isole come compito di tutto l’ordinamento (e non solo, come comunque faceva molto bene il terzo comma del vecchio art. 119) sul piano finanziario. Tale soppressione era stato il prodotto, non solo del modesto successo dell’iniziativa meridionalistica dei cinquanta anni precedenti, ma anche dell’influenza della Lega Nord e di una grave sottovalutazione del problema.
Nonostante questo indebolimento, il quinto comma ora vigente dell’art 119 incorpora tuttora la sostanziale considerazione in Costituzione della questione quando – ispirandosi alla visione della coesione specificata a livello europeo nel Trattato di Lisbona (art. 174 del TFUE) – indica tra i principi che reggono l’UE il promovimento della «coesione economica, sociale e territoriale». Anche nel testo attuale dell’art. 119 ci si riferisce essenzialmente agli assetti finanziari, che devono includere «risorse aggiuntive» da stabilire «in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni», in maniera da rimuoverne gli squilibri. In realtà il momento finanziario deve accompagnarsi al più vasto compito di orientamento di tutto l’ordinamento, se si vuol favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona.
Sulla base di questa filosofia, la struttura del Piano sembra svilupparsi secondo una logica solida. Esplicita è la formulazione degli obiettivi o “missioni”, che costituiscono senza dubbio il cardine di ogni indicazione di azione politica e amministrativa. Essi corrispondono nel documento a cinque capitoli che affrontano le carenze dell’attuale situazione italiana, caratterizzandosi con un’accentuazione marcata nel Sud rispetto al Centro-Nord. Riguardano le politiche nei confronti dei giovani, l’inclusività, la svolta ecologica, la frontiera dell’innovazione, l’apertura al mondo mediterraneo.
La formulazione dei capitoli è seguita dall’esame delle politiche strutturali e delle misure urgenti per l’impresa e il lavoro e della necessità di quella che viene chiamata «una rigenerazione amministrativa» e una «prossimità ai luoghi». Ed è preceduta dalla trattazione delle «risorse», resa necessaria dalla presenza dal verificarsi di un progressivo processo di «disinvestimento» di mezzi materiali e morali per il Sud rispetto al resto del Paese, al quale si propone debba nel decennio ora apertosi seguire un rilancio degli investimenti pubblici, quantificato in 21 miliardi nel triennio 2020-2022 in modo da riattivare una politica nazionale di coesione.
Le cinque missioni vengono indicate come armoniche con gli obiettivi di policy indicati dalla Commissione europea per gli anni 2021-2027 e con le sfide sancite a livello globale dall’Agenda ONU 2030, che ha come suo asse il perseguimento di uno sviluppo sostenibile sul piano ambientale, economico e sociale, corrispondente anche all’ispirazione internazionalistica dell’art. 11 della nostra Costituzione.
Nella trattazione di singoli obiettivi si potrebbero operare delle sottolineature, quali l’affrontamento di quello che viene giustamente chiamato «il nesso perverso tra povertà economica e povertà educativa minorile»; una «organica mitigazione del rischio sismico e idrogeologico», imposta dalla fragilità del territorio meridionale; la migliore infrastrutturazione del territorio del Sud verso l’esterno e nel suo interno; i legami col Mediterraneo; la “Strategia Nazionale per le Aree Interne”; la riqualificazione dei borghi appenninici, che ha il suo omologo nei borghi della Sardegna interna; la rigenerazione dei contesti urbani; la riduzione della frattura volta a garantire la continuità territoriale e ad affrontare i problemi dell’insularità, anche questi ultimi presenti nella Carta europea (art. 174.3 del trattato di Lisbona).
Per un piano la cui intera ispirazione è sorretta dall’intento di assicurare lo sviluppo e la coesione di un territorio, o piuttosto di variegati territori, sorge ovviamente il problema degli strumenti. Si tratta della parte più problematica del documento, in quanto tocca quei fenomeni di funzionamento della pubblica amministrazione che, nell’esperienza del nostro Paese, presentano i maggiori problemi di disegno normativo e sono esposti a gravi insufficienze pratiche, sia sul piano nazionale che, e particolarmente, nel Sud. Un po’ enfaticamente, il documento ne abbozza la riforma proponendo un «nuovo metodo» e una «rigenerazione amministrativa».
Non è facile orientarsi in questi propositi, soprattutto dato il numero e la distribuzione degli organismi e dei compiti da essi svolti, con i loro rispettivi rapporti. Nel Sud il tentativo di superamento delle insufficienze amministrative (quando c’è stato) ha fatto perno su interventi straordinari, ai quali si è spesso dato luogo ponendoli accanto a quelli ordinari, teoricamente concependoli ma non sempre attuandoli come «aggiuntivi», e non sostitutivi, rispetto a questi ultimi. Nella classica legislazione sul Mezzogiorno inaugurata nel 1950, la creazione della Cassa per il Mezzogiorno diede a suo tempo vita a una complessa relazione tra questo nuovo dinamico organismo e l’amministrazione centrale e locale. Quell’ente, forte anche se non di rado contestato, è stato al centro non solo dell’esecuzione ma della stessa programmazione della politica meridionalistica, pur affidata alle determinazioni degli organi centrali, quali il CIPE, il Ministero del Bilancio e il Ministro per il Mezzogiorno, e in misura minore ed incerta partecipata, quando furono create, dalle Regioni. L’attuazione degli interventi qualificati come straordinari in realtà ricadeva in misura cospicua, non solo finanziariamente, sulla Cassa, anche attraverso una serie enti ad essa «collegati», mentre rimase largamente incompleto, incerto o inattuato il previsto trasferimento delle funzioni di intervento straordinario alle Regioni.
Il Piano di Rinascita della Sardegna, [segue] previsto dallo Statuto speciale, fu concepito come intervento straordinario e aggiuntivo rispetto all’intervento ordinario (come prevedeva la legge istitutiva 11 giugno 1962, n. 588), convivente con gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno; ma, mentre la relativa programmazione era demandata al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, integrato dal Presidente del Regione, sotto la pressione della Regione la sua attuazione fu effettivamente delegata, nonostante molti dibattiti e dissensi autorevoli, all’attuazione da parte della Regione stessa, demandando alla Cassa un mero «controllo tecnico».
Nel caso del Piano Sud 2030, il problema si ripresenta, con qualche incertezza di formulazione. Viene così postulato il «rafforzamento del presidio centrale», che troverà il suo asse nel Dipartimento ministeriale della Coesione e nell’Azienda per la Coesione Territoriale. Entrambi sono strutture già esistenti, collocate presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e ora politicamente guidate dal Ministro per il Sud e la Coesione territoriale, ma ritenute da rafforzare mettendole in organico rapporto con la restante macchina governativa e degli enti locali.
Dunque, il Piano è disegnato secondo una linea complessivamente centralizzata, con una ripartizione di compiti delle due strutture che assegna al Dipartimento la natura di organismo «di supporto» del Ministro e all’Agenzia il «monitoraggio» dell’attuazione, al fine della «sorveglianza» di questa, aggiungendovi la «attuazione diretta» della rigenerazione amministrativa e le «azioni che necessitano di un forte coordinamento centrale in raccordo con le diverse amministrazioni coinvolte». Da altre proposizioni contenute nello stesso contesto, gli enti locali sono definiti attuatori oltre che beneficiari del Piano, e sono dotati anche di centri di committenza locali. Va tenuto presente che la recente legge di riordino dell’Agenzia non prevede per essa compiti normali di gestione amministrativa, ma le è invece affidata la missione di assistenza alle amministrazioni, di vigilanza su di esse e di valutazione dei risultatati della politica di coesione, «ferme restando (così il primo comma di quello stesso articolo) le competenze delle amministrazioni titolari dei programmi» europei e nazionali. Solo in una delle ipotesi di applicazione si rende possibile che l’Agenzia assuma eventualmente «le funzioni di autorità di gestione di programmi finanziati con le risorse della politica di coesione e per la conduzione di specifici progetti», ipotesi chiaramente eccezionale rispetto alla missione generale di questo organismo. Non sembra che il Piano Sud voglia allontanarsi da questo criterio, né vi è un indizio che l’ACT debba ripetere il modulo della Cassa per il Mezzogiorno, ma si intenda al contrario mantenere la linea di conservare e incentivare le amministrazioni sia statali che delle Regioni e degli Enti locali nell’esercitare i propri compiti, anche quando questi siano impegnati dalla politica di coesione e utilizzino gli strumenti previsti da questa politica.
Auspicando che tutto ciò venga messo in azione e non porti a complicazioni burocratiche, si può sottolineare che si prevede l’assunzione nel decennio di diecimila giovani da inserire nell’amministrazione per l’attuazione del Piano, sia nel Mezzogiorno che nelle strutture centrali deputate alla politica di coesione, e che a questa assunzione si assegna “una centralità fondamentale”.
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* Umberto Allegretti, cagliaritano, già docente dell’Università di Cagliari, è professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli studi di Firenze.

No a un nuovo centralismo

uccellino-che-guarda
lampadadialadmicromicroPubblichiamo l’articolo dei proff.ri Umberto Allegretti e Enzo Balboni, segnalando come lo stesso risalga a oltre un mese fa, e pertanto parzialmente superato per alcune osservazioni sulle ordinanze dei presidenti di regione dai successivi provvedimenti governativi. Di fondamentale resta la difesa dell’autonomia regionale, argomentata nello stesso contributo, che consente opportune differenziazioni nei comportamenti richiesti ai cittadini delle diverse comunità regionali, pur nel quadro di un intervento unitario sulla salute pubblica e sulle sue emergenze di competenza delle autorità del governo nazionale. E tutto ciò è essenziale in tempi di risorgenti spinte accentratrici o all’opposto di pericolose spinte disgregatrici (fm).
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Autonomismo e centralismo nella lotta contro la pandemia coronavirus
Umberto Allegretti – Enzo Balboni**
(9 aprile 2020)

1. Sulla base essenzialmente dell’art. 118 Cost., la lotta contro la pandemia Coronavirus sta collaudando un modello di rapporti Stato-Regioni di stile diverso: meno appesantito da incomprensioni e conflittualità, che nell’insieme sembra stia funzionando bene.
Poiché nessuno sembra mettere in dubbio un intervento complessivamente efficace delle autorità centrali – inclusa la presa d’atto che un personale politico della cui adeguatezza si poteva prima dubitare (per la sua mancanza di esperienza rispetto alla classe dirigente del passato) è “cresciuto” nella capacità politica e amministrativa – ci poniamo questa domanda: come hanno affrontato le Regioni, che hanno la primazia tra le istituzioni non centrali, la battaglia di contenimento e contrasto dell’epidemia COVID-19 “Coronavirus” e, soprattutto, come ne sono uscite nei confronti dello Stato-organizzazione e dello Stato-comunità nazionale?
Fatti salvi alcuni, anche rilevanti, errori, omissioni o inutili sovraccarichi – avvertiti specialmente nella fase iniziale, quando ci si è trovati a dover camminare impreparati nelle tenebre di una tragedia che si rendeva ogni giorn o sempre più incombente – il giudizio che ci sentiamo di dare, almeno fino al momento presente, è positivo. Sì: l’istituto Regione (e con esso il sistema degli enti locali) ha retto di fronte al tremendo impatto, riuscendo ad organizzare un contrasto efficace, nel senso di essersi dimostrato capace di schierare, sui diversi campi di battaglia, batterie di uomini e mezzi che hanno voluto e saputo combattere un male ignoto e subdolo, veloce nei suoi attacchi e particolarmente aggressivo. I primi antemurali – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – e i ceti governanti ivi operanti hanno retto all’urto della pandemia e, a nostro avviso, si sono progressivamente legittimati agli occhi del vero giudice: i loro cittadini, in primis, e la comunità nazionale poi.
Certamente, e necessariamente, lo Stato ha fatto la sua parte (anche qui al netto di errori ed omissioni non tutte facilmente scusabili: soprattutto sul piano della preparazione remota, nell’approvvigionamento dei presìdi sanitari e della comunicazione) e, nei fatti, si è prodotta una adeguata collaborazione con le Regioni.
Queste ultime, dal canto loro, e senza che se ne rendessero pienamente conto, erano sottoposte ad un esame costante da parte dell’opinione pubblica, vale a dire dalla voce della democrazia pluralista. Dopo la cattiva prova – e talvolta i pessimi esempi di condotta individuale data dalle classi dirigenti regionali dagli anni ’90 in poi – dimostrarsi non all’altezza dei propri doveri e far cattivo uso dei poteri a disposizione per l’esercizio delle funzioni a loro attribuite avrebbe significato congiungere un eventuale insuccesso attuale con l’avvio di una progressiva ma accelerata decadenza dell’istituto regionale stesso.
Con parole più nette: se, nell’ora della prova e del pericolo non si fosse palesata, nei fatti e nei comportamenti, una “comunità regionale” presente e viva a fronte di una comunità nazionale sussistente di per sé e rappresentata dalla figura statale e dai suoi organi, la campana a morte per le nostre Regioni avrebbe cominciato a diffondere i suoi tristi rintocchi.
Invece, dopo quarant’anni da momento in cui l’aforisma “Regioni senza regionalismo” venne coniato (con intimo dolore, nel 1980) da Giorgio Pastori, si può oggi dare ragione a quell’altra sua massima: “se le Regioni non esistessero, bisognerebbe inventarle”.
Ci rendiamo conto che le nostre sono affermazioni impegnative. Esse, da un lato, non vogliono essere assolutorie degli svariati errori che pur continuano a presentarsi in taluni atti e comportamenti delle Regioni, ma neppure vogliamo supinamente accettare molte, non sempre indispensabili né accettabili, misure di accentramento presso lo Stato di decisioni che potevano essere ritenute di competenza regionale e che sono presenti anche nell’ultimo decreto legge n. 19/2020. In tali circostanze restiamo tuttora in un terreno di “non regionalismo” ex parte statuale.
Vogliamo invece dire, andando al di là del mero riparto di competenze quale è fissato nel nuovo Titolo V Cost., che adesso abbiamo (e potremmo meglio avere in futuro) una “misura” di reciproco riconoscimento di ambiti, spazi, competenze, materie, oggetti (chiamiamoli come vogliamo) e dunque di mutuo rispetto e di “leale collaborazione” tra ciò che spetta ad una comunità regionale e ai soggetti che la rappresentano e ciò che spetta alla comunità statale e ai suoi organi.
Cominciamo l’indagine – necessariamente sommaria – dai luoghi dove all’inizio si è abbattuta, con particolare violenza, l’epidemia. Se è vero, come è vero, che le calamità uniscono, la “comunità regionale lombarda” (così autoproclamatasi nel suo Statuto di autonomia, art. 1 e 2) si è riconosciuta e palesata tale forse per la prima volta dopo mezzo secolo
Fin da subito, una volta che il morbo ha aggredito la prima zona intorno a Codogno, la combinazione di provvedimenti statali e regionali – entrambi indispensabili dal momento che erano in gioco le competenze concorrenti di “tutela della salute” e “protezione civile” – ha prodotto un certo tipo di misure: restrittive, dure ma efficaci.
Fin da subito, partendo dall’ambito locale coinvolto in prima istanza (i Comuni con i loro Sindaci, le Autorità sanitarie locali, gli Ospedali, gli operatori sanitari, le imprese, il volontariato ecc.), si è avvertita una mobilitazione dell’intera società insediata sul territorio regionale, anche con iniziative autonome, originali e spontanee: raccolte di fondi; interventi mirati delle industrie del settore sanitario (notevole, fra tante, quella di un’impresa di Lecco che si è convertita in pochissimi giorni alla produzione di disinfettanti valendosi dellacollaborazioneimmediatadel Sindaco,dell’Ufficiodoganeedelle autorità regionali di settore); avvio di start up, che in breve stanno producendo prototipi di presidi ospedalieri (ad es. valvole di ventilazione realizzate in loco con stampanti 3D e respiratori), che potranno essere messi poi a disposizione della comunità nazionale. Insomma: si è dato incremento a svariate iniziative locali, ma coordinate in ambito regionale che, a sua volta, dava vita a quella differenziazione virtuosa che sembrava così ostica da capire per chi ragionava, sulla falsariga di un assioma sbagliato, in base al quale la differenziazione tra Regioni produrrebbe di per sé diseguaglianza. Una diseguaglianza ostile e sfavorente le comunità regionali dotate di minori mezzi e risorse. Questa era la pesante accusa rivolta, di recente, ai tentativi di attuazione dell’art. 116 terzo comma.
Poter archiviare a lato positivo che la differenziazione è un principio di modulazione di attività, riferite alle caratteristiche particolari dei territori, e tale da favorire, sussistendo specifiche condizioni, una uguaglianza di miglior qualità e che si colloca ad un livello di pubblica utilità più alto, con lo scopo di metterlo a disposizione di tutti, ci sembra già un risultato utile.
Ancor più, il confronto tra scelte di contrasto all’epidemia diverse tra le Regioni (casualmente con una identica coalizione di governo, come accade tra Lombardia e Veneto), per il fatto che il Veneto, sulla base di una propria concreta esperienza epidemiologica, quella di Vo’ Euganeo, e con il supporto scientifico della sua maggiore Università, quella di Padova, abbia deciso per un’indagine su larga scala utilizzando i tamponi esperiti su migliaia di suoi cittadini, evidenzia ulteriormente che il principio di differenziazione (se coniugato insieme a quelli di appropriatezza e proporzionalità) può essere utile a trovare, nel tempo più breve possibile, un’efficace risposta di contenimento, contrasto e cura.
Uguale discorso può farsi per la terza tra le Regioni settentrionali accennata nel nostro ragionamento, l’Emilia Romagna (per la quale non è adesso importante ricercare specifiche esemplificazioni) che ha ritenuto di avvalersi di un Commissario ad acta, il dott. Venturi, che fu già assessore alla sanità e gode di grande autorevolezza conquistata sul campo. Ovviamente, per avviare ri-organizzazioni amministrative non era indispensabile l’arrivo di un virus devastante, ma se tale misura straordinaria sarà valsa, alla fine, a conquistare il risultato atteso, ne trarrà beneficio anche l’istituzione regionale che ha così operato.
All’estremo opposto del Paese, la Sardegna, non rivendicando la sua specialità ma accettando il modello Stato-Regioni generalizzato all’intero ordinamento, ha d’altra parte giocato saggiamente la sua insularità coi suoi vantaggi e svantaggi. Cioè non cedendo (…al contrario di grandi Paesi vicini e lontani dal centro della pandemia collocato, dopo la partenza cinese, in Europa) all’illusione che la sua situazione geografica la proteggesse, e pur con una classe di governo abbastanza anomala rispetto alla precedente storia della sua vicenda autonomistica, ha esercitato un continuo controllo dell’andamento del morbo nei termini in cui la lotta contro di esso potesse esercitarsi. E non ha mancato di richiedere essa stessa – come risulta da altrettante ordinanze del Ministro delle infrastrutture di concerto con quello della salute – la sospensione del trasporto passeggeri da e verso la Sardegna e la limitazione dell’operatività aerea a poche linee facenti capo al solo aeroporto di Cagliari.
2. Il più recente decreto-legge 25 marzo 2020 n. 19, per ora, mentre scriviamo [9 aprile 2020], fondamentale intervento normativo primario nella lotta all’epidemia del Covid-19, presentato dal Presidente del Consiglio come una messa in ordine – già essa di per sé giustificata – della normativa precedente, ha apportato alla normativa sulla lotta al Coronavirus alcune grosse novità anche di sistema, non tutte notate dalla stampa né realizzate dalla pratica.
Procedendo, senza ripetersi, con lo schema da noi seguito nell’intervento apparso il 25 marzo sul “Forum di Quaderni Costituzionali” (U. Allegretti, Il trattamento dell’epidemia di “coronavirus come problema costituzionale e amministrativo”), esse possono essere rapidamente analizzate secondo la partizione: pandemia incisione sulle libertà e i comportamenti dei cittadini organizzazione del sistema di lotta all’epidemia, con riferimento in particolare (ma non solo) alla partizione-condivisione dei compiti fra Stato e autorità regionali e locali. Va poi aggiunta la sistemazione temporale delle fonti normative preesistenti ed il loro assetto futuro. Lo faremo rapidamente, consci della precarietà di una lettura a prima vista e delle sorprese, positive o negative, che l’evoluzione dell’epidemia potrà presentare.
Con il nuovo decreto diventano possibili, oltre che misure più restrittive di quelle stabilite dal precedente decreto 23 febbraio 2020, n. 6, altre “in diminuzione”; ciò evidentemente in proporzione all’attenuazione o almeno all’allentamento dell’epidemia (sperato, anche se per ora incerto e soggetto ad alternanze) e comunque in relazione a quello che è “l’andamento epidemiologico del predetto virus” (art. 1.1). È previsto dunque l’elemento tempo come qualificante le misure da prendere.
Inoltre, sempre “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente” – in questo caso con riferimento all’elemento spazio del fenomeno epidemico – le misure possono riguardare in maniera differenziata “specifiche parti del territorio nazionale”, oltre che la “totalità di esso” (art. 1.2, primo periodo); modalità che era già intervenuta all’inizio ma che era stata poi sostituita da un intervento territorialmente generalizzato, e che può essere dunque di dimensione regionale o locale.
Non meno rilevante è il fatto che, sempre sulla base degli stessi principi che guidano l’adeguamento alla dimensione spaziale dell’andamento epidemico, è stabilito ora che alle persone possono essere imposte “limitazioni alla possibilità di allontanarsi dalla propria residenza, domicilio o dimora”. Divieto prima generale; ora, dovrebbe al riguardo esser possibile ciò che noi indicavamo, nello studio citato in precedenza, come eccessivo nella sua generalità, riferendoci alle situazioni limite delle case isolate e dei piccoli Comuni da un lato, e della conformazione delle Città metropolitane dall’altro lato.
Ci fermiamo un momento per segnalare, in positivo, la novità di tali possibilità di differenziazione. Ciò è anche riflesso nel modulo di autodichiarazione diramato dal Ministero dell’Interno, da rendersi alle forze di polizia da coloro che venissero fermati nei loro spostamenti. Questo consente lo spostamento anche “per trasferimenti in Comune diverso”, e non solo per i motivi già indicati sotto il precedente D.P.C.M. 8 marzo, ora abrogato – lavoro, salute, situazioni di necessità, mentre il rientro presso la propria abitazione, originariamente previsto, era già stato soppresso dal D.P.C.M. del 22 marzo – ma anche per “urgente assistenza a congiunti o a persone con disabilità, o esecuzione di interventi assistenziali in favore d persone in grave stato di necessità”. Ciò probabilmente sulla base di una interpretazione della formula della necessità già contenuta nella normativa, e consentita dal quell’elemento solidaristico che informa tutta la Costituzione e già ispiratore, per riferirsi alle nostre democrazie, della legislazione portoghese appunto in materia di deroghe agli spostamenti, con l’uso della deroga che li ammette per “assistenza a terzi”. La norma attuale introduce tuttavia una nuova esplicita delimitazione del divieto: gli spostamenti devono essere “individuali” e “limitati nel tempo”.
Sempre in materia di libertà di circolazione, la chiusura dei parchi, delle ville e dei giardini pubblici, attuata in molti casi in precedenza ad opera di vari Comuni e generalizzata dal decreto del Ministro della salute del 20 marzo, è resa possibile in via generale (art. 1.2 let. b): ma anch’essa dovrebbe essere meglio delimitata secondo le situazioni locali.
Un altro tema delicato è la limitabilità delle professioni, (“anche ove comportanti l’esercizio di pubbliche funzioni”: notai e altri?) e del lavoro autonomo (art. 1.2 lett. z); oltre che delle imprese, anche quest’ultima generalizzata, in aggiunta a quelle già vietate e alcune ribadite dalle lett. u e v. dello stesso articolo 1.2.
Ma in materia ciò che non è stato subito notato dai mezzi di comunicazione pubblici è l’ipotesi in qualche modo inversa, forse perché straordinaria per la mentalità comune, ma consentita dagli art. 41 e 23 Cost. L’ipotesi cioè, certamente da corredarsi con misure di tutela di chi vi è sottoposto, che possa essere imposto, con provvedimento del Prefetto, che dovrà sentire le parti interessate, lo svolgimento di attività non oggetto di sospensione (modello portoghese: v. il nostro intervento cit.). Si pensi, per non ritenere il caso marginale, alla necessità di lasciar attive le imprese che sono necessarie per lo svolgimento di attività produttive consentite, per esempio quelle serventi alla pratica corrente delle attività agricole e per l’alimentazione (art. 1.3).
3. Sul piano organizzativo, fonte principale del trattamento dell’epidemia è innanzi tutto il decreto-legge (al di là di quello esaminato e i suoi immediati precedenti, in particolare il dl 23 febbraio 2020, n. 6, e gli altri che qui, nonostante la loro importanza pratica allorché riguardano le misure di sollievo economico e quelle sull’organizzazione del Servizio sanitario nazionale, non intendiamo esaminare), e poi lo sono i Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, emanati su proposta del Ministro della salute e sentiti altri ministri (art 2.1). Ma, nonostante tutto, essendo i diritti dei cittadini in gran misura garantiti da una riserva di legge solo relativa, e avendo i decreti-legge finora emanati (quest’ultimo compreso) indicato con sufficiente chiarezza le misure, il sistema non sembra incostituzionale.
Per altro verso, la pratica degli ultimi giorni ha mostrato il Presidente del Consiglio dei ministri che riferisce al Parlamento, seppure ex post, ma è difficile pensare che si possa fare molto di più; comunque, la conversione dei decreti in legge resta assicurata e l’una e l’altra cosa dovrebbero esser sufficienti a garantire se non il coinvolgimento quantomeno la presenza del Parlamento nelle decisioni, sia nelle Commissioni che in aula.
Certo, il decreto legge sembra a prima vista calcare la mano, forse più decisamente delle norme precedenti, accentrando poteri sullo Stato, anzi sul Governo (come già detto, decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e i provvedimenti del Ministro della salute – art 2.2). Ma, se è vero che la materia è condivisa come concorrente tra Stato e Regioni e che il principio di sussidiarietà vale anche verso l’alto (art. 117.2 e 118 Cost. nella nota interpretazione della Corte costituzionale), il ruolo dello Stato è oggettivamente prevalente per casi a vocazione “unitaria” di questo genere. Ciò che non è possibile, tuttavia, richiamando la statuizione base dell’art. 118 Cost., e avendo riguardo alla dimensione discendente della sussidiarietà (come già indicato dal nostro scritto precedente) è tagliar fuori dalla catena decisionale il sistema regionale e locale.
In effetti, l’art 2.1 ribadisce la pratica della necessità di sentire il parere delle Regioni (qualcuno sostiene: sarebbe meglio dover sentire la Conferenza unificata, ma l’urgenza ha giustificato, come fin qui, l’audizione del solo il Presidente della Conferenza delle Regioni). È stata poi aggiunta dalla stessa norma la previsione della pratica, già esistente, della proposta regionale per l’emanazione di nuovi D.P.C.M. Il tutto riconosce indirettamente che i decreti del Presidente dovranno nei loro contenuti tenere conto delle Regioni. [segue]

Che succede?

c3dem_banner_04L’ALZATA DI SCUDI DELLA CEI: NE AVEVAMO BISOGNO?
28 Aprile 2020 by Forcesi | su C3dem.
Alcuni dei nuovi commenti alla presa di posizione della Cei (oltre ai post di ieri). Commenti contrari: Marcello Neri (teologo), “La polemica e lo stallo della Cei” (settimana news.it); Antonio Autiero (teologo), “Fare messe – fare chiesa” (finesettimana.org); fr. MichaelDavide Semeraro, “Lettera a un vescovo” (finesettimana.org); Christian Pristipino (medico), “Libertà di culto e diritto alla salute” (lettera a mons. Giovanni D’Ercole, finesettimana.org); don Cristiano Mauri, “‘Non ne avevamo bisogno’. I miei pensieri sullo scontro Cei-governo” (labottegadelvasaio.org); Alessandro Perissinotto, “La lezione del cardinal Borromeo” (Mattino); Massimo Galli (virologo), “In chiesa stessi rischi come allo stadio, non si può consentire ora la libertà di culto” (intervista al Mattino). Commenti favorevoli o possibilisti: mons. Bruno Forte, “Il divieto delle messe viola la Costituzione” (Mattino); mons. Angelo Bagnasco, “Musei aperti e messe vietate, grave disparità di trattamento” (intervista al Secolo XIX); Giuseppe Lorizio (teologo), “Mai più l’incubo del Leviatano” (Avvenire); Andrea Riccardi, “Le limitazioni tolgono riferimenti a tutto il Paese” (Corriere della sera). EMENDAMENTI: l’emendamento sui protocolli per la libertà di culto proposto da Stefano Ceccanti; la proposta di numerosi professori universitari per una cauta ripresa in sicurezza delle celebrazioni religiose.

Gli Editoriali di Aladinpensiero online

giudice-a-berlino 25 aprile e Costituzione di Giuseppe Andreozzi- Clicca per accedere.
Il trattamento dell’epidemia di “coronavirus” come problema costituzionale e amministrativo
di Umberto Allegretti. Clicca per accedere.
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sbilanciamoci-20 In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo.Su Sbilanciamoci, 18 Aprile 2020 | Sezione: Apertura, Società. Clicca per accedere.
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25 aprile e Costituzione

giudice-a-berlino
di Giuseppe Andreozzi

Nella costituzione italiana è posto a chiare lettere il principio che ragioni di carattere generale, come quelle che riguardano la salute e la sicurezza, possono giustificare limitazioni alle libertà personali dei cittadini, ma con una ben precisa limitazione: simili restrizioni possono essere imposte soltanto con legge. Nel diritto si chiama “principio di legalità”.
Fra le libertà personali “inviolabili” c’è quella della libertà di circolazione.
Più precisamente l’art. 16 (comma 1 prima frase) dispone: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”
Ricordiamo oggi, 25 aprile, in quale contesto e per quali ragioni nacque questa norma.
L’assemblea costituente, incaricata di elaborare la carta dopo la fine della guerra, rappresentava le forze politiche antifasciste, nelle cui fila figuravano partigiani combattenti, ma anche, in larga misura, donne e uomini che a suo tempo avevano rifiutato di riconoscersi nella dittatura fascista e avevano espresso idee di libertà e di democrazia incompatibili col regime.
Manifestazioni di dignità e coraggio spesso pagate col carcere, col confino, ma anche con la sottoposizione a misure restrittive ad opera di prefetti, questori e podestà pronti a cogliere ogni pretesto, come la visita di un ministro o una manifestazione del regime, per angariare gli antifascisti obbligandoli a trascorrere il tempo nella propria dimora o nelle camere di sicurezza della polizia.
La prima formulazione dell’articolo 16 della costituzione fu illustrata nel corso della seduta del 20 settembre 1946 della prima sottocommissione della costituente dal relatore Lelio Basso, avvocato, socialista, collaboratore di Piero Gobetti nella rivista “Rivoluzione Liberale”, confinato nell’isola di Ponza e poi recluso nel campo di concentramento di Colfiorito.
Dal resoconto del relativo dibattito, al quale parteciparono tra gli altri Aldo Moro, Palmiro Togliatti, Giorgio La Pira, Nilde Iotti, Giuseppe Grassi, esponenti di spicco della sinistra, del mondo cattolico e della cultura liberale, risalta con evidenza la memoria di simili angherie e la comune volontà di porre un freno al potere esercitato dalle autorità amministrative attribuendo soltanto al legislatore il compito di disporre in materia.
In questi giorni il proliferare in tutto il Paese di provvedimenti restrittivi della circolazione dei cittadini adottate da presidenti di regione e sindaci ha messo gravemente in crisi quel principio di legalità in materia di libertà del cittadino.
Gli uni e gli altri, a dire il vero, hanno il potere di emettere, per ragioni di necessità e urgenza, provvedimenti che richiedono prestazioni di natura personale e patrimoniale “in base alla legge”. Però, come ha precisato la Corte Costituzionale “La Costituzione italiana, ispirata ai principi fondamentali della legalità e della democraticità, richiede che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge (art. 23). La riserva di legge appena richiamata ha indubbiamente carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie in tutti gli ambiti non coperti dalle riserve di legge assolute, poste a presidio dei diritti di libertà, contenute negli artt. 13 e seguenti della Costituzione” (sentenza n. 115 del 2011).
Dunque libertà personale (art. 13), inviolabiltà del domicilio (art. 14), libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15), libertà di circolazione (art. 16), coperti da “riserve di legge assolute”, possono essere limitate solo attraverso una precisa regolamentazione che spetta in via esclusiva al legislatore.
Si dirà che quelle in atto sono misure limitate all’emergenza sanitaria. Non dimentichiamo però che nella previsione della costituzione alla sanità è accomunata la sicurezza. E potrebbe accadere, se oggi permettiamo simili restrizioni alle autorità amministrative, che un domani le stesse possano adottate, ad esempio, a fronte del pericolo di tumulti di piazza.
Fa parte della storia anche recente che emergenze di qualunque genere talvolta costituiscono il pretesto per avviare forme di repressione della democrazia. Come ha fatto giusto un mese fa il premier ungherese Orbàn il quale (beninteso, grazie a una costituzione assai più fragile della nostra) si è fatto attribuire, senza limiti di tempo, la possibilità di governare per decreto, riservandosi il potere di riconvocare quando vorrà il parlamento e di procrastinare nuove elezioni.
In questo clima preoccupano alcune pronunzie giudiziali, peraltro adottate in via cautelare e provvisoria, e l’imbarazzante silenzio di autorevoli giuristi che pure negli scorsi anni avevano acquistato la ribalta nazionale in difesa della carta costituzionale.
Dovremo impegnarci tutti, tecnici di diritto, ma non solo e non da soli, perché non resti traccia di decisioni e pareri, condiscendenti verso simili forme di esercizio abusivo del potere, che un giorno potrebbero essere usate in altri contesti e per altri fini. Sostenuti dalla stessa, forte convinzione del piccolo mugnaio di Potsdam che alla fine troveremo un giudice a Berlino.
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lampada aladin micromicroIn argomento pubblichiamo uno scritto del prof. Umberto Allegretti, apparso su “Forum di Quaderni costituzionali” il 25 marzo scorso, che si sofferma anche su altre questioni (rispetto a quelle trattate dall’avv. Andreozzi) di carattere giuridico – e non solo – suscitate dai provvedimenti del governo, dei presidenti delle regioni e dei sindaci. Successivamente alla data dello scritto sono state assunte dalle stesse Autorità ulteriori decisioni in modifica e precisazione di una serie di divieti limitativi delle libertà dei cittadini. Altre si preannunciano imminenti inquadrabili nella cd fase 2. Restano gli interrogativi sia sull’efficacia di alcuni provvedimenti e sulla loro applicazione più o meno distorta, sia soprattutto rispetto alla costituzionalità di alcune norme adottate e alla legittimità di assunzione delle stesse da parte delle diverse autorità, pensando ai rischi di estensione “a discrezione” ai diversi campi in cui si esplicano i diritti dei cittadini.
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Il trattamento dell’epidemia di “coronavirus” come problema costituzionale e amministrativo
di Umberto Allegretti

L’epidemia del Covid-19, oltre ai problemi medici e di vita comune, fa sorgere sul fronte giuridico notevoli questioni, alcune delle quali fra le più acute cercheremo di delineare a caldo e sommariamente. Si tratta di questioni in continua evoluzione – dobbiamo qui tener conto della situazione esistente al 23 marzo – che, pur non prive di solidi riferimenti a nozioni giuridiche acquisite, sono in gran parte nuove e di fatto sembrano spesso affrontate più con aderenza alle necessità straordinarie del caso che non alla formale aderenza a quelle nozioni. Sappiamo di sfidare così, prima che i limiti dell’autore di queste note (…come di ogni altro, crediamo) le inadeguatezze e incertezze del diritto, soprattutto ma non solo di fronte a fatti così travolgenti.
Possiamo annodare le questioni da affrontare attorno a due nuclei, seppur legati tra loro: il primo è quello dei diritti delle persone e delle loro limitazioni; il secondo è il problema organizzativo.
Muoviamo qui da quest’ultimo, nonostante che esso abbia natura servente rispetto al primo. Esso, a un esame del sistema normativo messo in piedi per affrontare il caso, appare risolto in modo complessivamente soddisfacente, secondo linee adeguate alla forma di Stato propria del nostro ordinamento, smentendo, ci sembra, la condizione di un Paese… che in genere non possiede precisamente una vocazione all’organizzazione.
Il perno dell’azione deliberata per la lotta contro il virus, in nome di quel diritto della persona alla tutela della salute che la Costituzione definisce come diritto “fondamentale”, è la fonte legislativa statale. Trattandosi nella presente situazione di un caso straordinario di necessità e di urgenza, è stato giustificatamente approvato dal Governo come atto fondamentale un decreto legge (n. 6 del 2020), che il Parlamento ha con non frequente senso di concordia convertito nella legge 5 marzo 2020, n. 13, seguito da altri analoghi provvedimenti.
Questa fonte legislativa prevede (art. 1.2) un elenco di numerose e pregnanti misure restrittive di diritti fondamentali delle persone e di provvedimenti ad esse connessi, di applicazione nell’insieme doverosa pur lasciando aperta una discrezionalità applicativa, e autorizzandone come eventuali anche altre, individuate con la formula generale “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” (art.1.1 e art. 2), che definisce quelle non esplicitamente elencate come misure “ulteriori”. L’elencazione è sufficientemente precisa, ma costituisce base per atti governativi previsti a valle della legge, che consistono essenzialmente nell’adozione di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 3.1), che, come vedremo sono stati infatti abbondantemente emanati (fondamentale quello dell’11 marzo). E’ chiaro che il legislatore ha aderito all’idea che il carattere relativo che può avere la riserva di legge in relazione ad alcuni diritti fondamentali – tanto più quando, come quello alla salute, sono concepiti dalla Costituzione, anche in quanto interesse della collettività, come aventi un grado superiore rispetto ad altri – autorizza il complemento di provvedimenti governativi. E non si può negare – anche senza poter qui coinvolgere una competenza sanitaria che chi scrive non possiede – che i provvedimenti adottati dai numerosi DPCM finora emanati abbiano in generale una loro congruità.
Ma qual è il fondamento, nello Stato fortemente regionalizzato che è il nostro, dell’assegnazione di un ruolo fondamentale alle norme statali, come evidentemente ha ritenuto il sistema adottato? Se lo chiede… quel giustificatamente scrupoloso pignolo che è il giurista, mentre il profano risolve la questione con naturalezza, ritenendo che le dimensioni del problema dell’attuale epidemia sono almeno di livello statale (e in realtà chiamerebbero in gioco, più di quanto non sia finora avvenuto, l’organizzazione europea e quel tanto che esiste di organizzazione mondiale).
La Costituzione assegna la tutela della salute alla competenza concorrente di Stato e Regioni. Come pure è di tale natura la materia della protezione civile, che risulta ripetutamente invocata dalle norme adottate, nonostante che nel caso della salute siamo di fronte a un tipo di calamità diverse da quelle legate ai beni legati al territorio in quanto tale, normale oggetto di questa funzione, che ordinariamente le affronta sulla base, ora, del codice della protezione civile oggetto del d. lgsl. 2 gennaio 2018, n. 2. Entrambe le materie supporrebbero la determinazione da parte della legge statale dei principi fondamentali e l’applicazione dettagliata spetterebbe alla legge regionale. Qui ci troviamo invece davanti a una legge statale che domina il campo, avocandolo fondamentalmente allo Stato.
Se cerchiamo una giustificazione giuridica di questo fatto, viene sotto gli occhi la chiamata in sussidiarietà elaborata dalla Corte costituzionale nella ricostruzione degli art. 117 e 118 Cost., perché sembra che siamo in presenza della generale necessità di assicurare “l’esercizio unitario “ di una funzione sollecitata da circostanze la cui dinamica travalica i confini dei territori e delle stesse prerogative regionali. Potrebbe anche invocarsi l’art. 120, che opera quando vi è un “pericolo grave per l’incolumità pubblica” o quando lo richiede la tutela del’unità giuridica dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Anche se questo secondo tipo di intervento, lasciato al Governo, è assimilato a quelli sostitutivi nei confronti delle regioni considerate inadempienti, i due fondamenti dell’intervento statale convergono ed entrambi comportano la leale collaborazione tra Regione e Stato.
E lo Stato la ha realizzata, per disposizione del’art. 3.1 del d.l. n°6, come convertito dalla legge n. 13, sentendo prima dell’emanazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri ad efficacia per tutto il territorio nazionale il Presidente della conferenza dei presidenti delle Regioni e, sulle eventuali norme che concernono specificamente singole Regioni, i loro presidenti (art. 3.1). Si tratta dunque giuridicamente di un semplice parere e non di un’intesa, come si era in una prima fase pensato per i casi di attrazione in sussidiarietà; d’altronde risulta dai decreti o si apprende dai media che alcuni provvedimenti (come quelli ministeriali in tema di trasporti per il Sud e le Isole) sono stati assunti su richiesta delle relative Regioni.
Inoltre, la stessa legislazione statale, riconoscendo, quanto meno implicitamente, che vi sono altre “autorità competenti”, con l’art. 2 stabilisce che esse – e si tratterà, secondo l’estensione territoriale, del Ministro della salute o di altri ministri, delle Regioni e dei Comuni – possano adottare quelle ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza di cui si è accennato; e con l’art. 3.2 per i casi di “estrema necessità ed urgenza” mantiene in vita i poteri di ordinanza contingibile ed urgente che precedenti leggi assegnano a entrambi.
I presidenti di Regione e i sindaci hanno fatto largo uso di quei poteri per i servizi locali; così pure il Ministro della salute per problemi più generali. A sua volta, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti è stato dotato del compito di limitare o sospendere i servizi diversi da quelli locali di persone e di merci terrestri, aerei, marittimi e lacustri (art. 1.5 del DPCM dell’11 marzo in relazione all’art. 1 lett. m della legge). Il Ministro ad esempio se ne è avvalso con separati provvedimenti per la Sardegna e per i percorsi per il Sud.
Nel complesso sembra che le norme così adottate (salvo il giudizio sui singoli casi di merito) siano aderenti al sistema di ripartizione dei poteri costituzionalmente stabilito.
Per quanto attiene alla collaborazione tra le autorità statali, si può constatare che i provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri vengono adottati su proposta del Ministro della salute, sentiti una serie di altri ministri. Il Governo è dunque implicato collegialmente, e del resto aveva fin dal mese di gennaio agito in maniera preventiva con ordinanze del Ministro della salute e con la dichiarazione di emergenza nazionale assunta dal Consiglio il 31 di quel mese.
Da più parti è stata criticata la scarsa capacità di intervento lasciata al Parlamento; ma, a parte la conversione in legge dei decreti legge, e tenuto conto dell’assegnazione di gran parte della materia a riserve di legge puramente relative, esso ha mantenuto la possibilità, invero scarsamente esercitata (ma si veda la doppia deliberazione dell’11 marzo), di discutere dell’operato degli organi governativi.
Qui si viene a quello che abbiamo ricordato essere il primo nucleo di questioni, che non può qui essere facilmente oggetto di un’analisi riferita alla totalità degli aspetti e che, comunque, è quello su cui sono possibili le maggiori perplessità.
La questione generale che si apre è quella dei contenuti restrittivi che il trattamento dell’epidemia comporta per i diritti fondamentali. E’ chiaro che il riferimento primo riguarda il diritto alla salute delle persone e, in pari tempo, della collettività. Esso ha sempre comportato vari limiti a sua tutela, come ad esempio le vaccinazioni obbligatorie e altri trattamenti sanitari che colpiscono le libertà della persona. Tra i diritti fondamentali il diritto alla salute, dato il suo grado, nell’inevitabile comparazione che nasce dalla convivenza e spesso dallo scontro tra i diversi diritti pure qualificati come fondamentali tende a rivestire un valore tendenzialmente più elevato di altri. Ma si sa che nei diritti fondamentali non si può prescindere da un criterio di proporzionalità tra i diritti la cui prevalenza determina i sacrifici legittimi e i diritti sacrificati.
La prevalenza del diritto alla salute pesa proprio nella situazione attuale, che si inquadra prima di tutto nell’art. 16 della Costituzione. Anche quest’articolo garantisce un diritto e un valore collettivo fondamentale – la libertà di circolazione – ma prevede espressamente la possibilità di limitazioni, in via generale, per motivi di sanità (oltre che di sicurezza).
Senza entrare in tutti i provvedimenti economici né in quelli sul potenziamento del Servizio sanitario nazionale, che hanno disposto sia restrizioni che aiuti, va sottolineato che, con un successivo rapido infittirsi di provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1°, 4, 8, 9, 11 e, ora, 22 marzo, sono state disposte misure restrittive e talora solo raccomandazioni o semplici inviti, a non allontanarsi o accedere ai luoghi infetti e ad astenersi da una serie di comportamenti, qualificati diversamente secondo tempi e luoghi, via via estesi all’intero territorio nazionale e fino al 25 marzo o al 3 aprile o data posteriore fissata dalle varie norme. Esse investono tutte le principali libertà, in particolare alcuni aspetti della libertà personale, quelle di riunione, di manifestazioni anche di pensiero, e attività di istruzione, di lavoro ed economiche, contenendo però una serie di deroghe.
La normativa delle varie fonti – per lo più nata dapprima nella tragica esperienza lombarda con provvedimenti regionali basati su un modello fatto proprio nell’insieme da altre Regioni ed esteso a tutto il territorio nazionale – suscita talora interrogativi e perplessità, data la pur comprensibile formulazione di categorie scarsamente definite. Per esempio l’espressione “esercizi commerciali di vicinato” (che sono permessi, e che comunque dovrebbero comprendere quasi tutti gli esercizi di vendita di generi alimentari e “di prima necessità”, purché limitatamente a questi ultimi). In esse può sorprendere fra altre…”l’indulgenza” per le rivendite di tabacchi, la cui apertura appare essenzialmente motivata da preoccupazioni per le entrate erariali. Fino al 22 marzo, non ha avuto corso un divieto generale delle attività produttive, anche se molte erano le attività vietate ed alcune assai delicate erano specificamente garantite (DPCM 11 marzo). Ora è in vigore (DPCM 22 marzo) una “sospensione” teoricamente generale, rinviando peraltro per le modalità all’accordo condiviso con le parti sociali del 14 marzo, e corredato da quasi cento deroghe; troppe, secondo i sindacati, spesso espresse con larghezza e “cumulativamente” a quanto previsto dal decreto dell’11 marzo. A differenza di quanto era stato discusso come oggetti di possibili generali divieti, risultano permesse numerose attività artigianali, le attività nei cantieri, determinati studi professionali.
In materia ci si potrebbe interrogare circa la congruità di alcune modificazioni a tale regime contenute nelle norme di altri Paesi, quali quelle del Portogallo che consentono, oltre la possibilità di requisizione di beni immobili e mobili, l’eventualità dell’imposizione di apertura e funzionamento di certe imprese e di prestazione al lavoro di collaboratori di entità pubbliche e private.
In alcune Regioni – la Lombardia, prima di tutto (v. le ordinanze n. 514 e 515 del 21 e 22 marzo) – sembrano da ritenere in vigore provvedimenti più restrittivi in importanti campi, il che dovrebbe esser possibile in forza della disposizione, già ricordata, per cui le Regioni possono sancire misure ulteriori rispetto a quelle previste dalle norme statali. Tali sono la sospensione di attività “decentrate” delle amministrazioni pubbliche, le attività nei cantieri (salvo alcuni tipi di essi) e la chiusura degli studi professionali, mentre altre disposizioni delle ordinanze ripetono prescrizioni già vigenti o anticipano misure contenute poi nel DPCM del 22 marzo, incoraggiando le forme di lavoro detto agile o a distanza.
In molti aspetti dubbia è l’identificazione degli “spostamenti” delle persone, che le norme hanno disposto prima come da “evitare”, poi vietati, salvo che per comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o di salute o per rientro al proprio domicilio, abitazione o residenza. Si potrebbe forse accogliere, per via interpretativa o meglio con una modifica al decreto vigente, l’ulteriore deroga per “assistenza a terzi”. Da ultimo è stata vietata l’attività motoria, svolta anche singolarmente, se non nei pressi della propria abitazione. Nei dettagli, come sempre accade (come si suol dire…il diavolo è nei dettagli) molte sono le perplessità che possono sorgere al riguardo. Evidentemente sono da ritenere permesse da stretta necessità le uscite da casa per accedere alle attività garantite; ma altre sono soggette a interpretazione non agevole. In ogni caso la prescrizione, così frequente nei media e a livello di opinione pubblica, “Io resto a casa” sembra comunque semplificata o nella sua generalità ha il valore di una raccomandazione o di un invito.
Un interrogativo tra gli altri verte sulla chiusura dei parchi urbani, su cui si potevano già documentare, per le grandi città, i casi dei Comuni di MiIano, Bologna, Firenze e Cagliari (ma certamente anche di altri), che hanno chiuso i parchi recintati, impedendo così attività per altro verso di giovamento alla normale salute dei cittadini (si pensi in particolare ad anziani e bambini) e che se, come si rilevava, avrebbero teso a essere luogo di assembramenti di persone, potrebbero semmai essere oggetto di maggior vigilanza di polizia volti a scioglierli. Sennonché nell’ultimo provvedimento del presidente del consiglio dei ministri i parchi sembrano ora tutti oggetto di divieto, così come le ville, le aree di gioco, i non meglio identificati giardini (le aiuole aperte su strade pubbliche sono comprese nel divieto?)
In genere lo spostamento ammesso è quello nell’ambito del proprio comune; ma così non pare si tenga conto della diversa configurazione degli abitati, per esempio delle particolari esigenze delle campagne e di abitati molto piccoli, privi di essenziali servizi, e per altro verso di quelle delle città metropolitane, che vedono per solito certi tipi di esercizi – come quelli riguardanti gli arredi per la casa, quand’anche di stretta necessità – funzionare nei comuni suburbani anziché nella città centrale o negli altri comuni dell’area; il che dovrebbe impedire come eccessivamente semplificata l’esortazione che lo spostamento delle persone debba sempre esser confinato al proprio comune. E’ invece generale e giustamente ripetuta la prescrizione di osservare la distanza di un metro fra le persone.
Volendo scegliere altri giustificati esempi, potremmo indicare l’assoggettamento a quarantena (40 giorni, 14 o altra durata?) di coloro che arrivano dalle zone rosse e di coloro che sono risultati positivi o che abbiano avuto contatti stretti con casi della malattia confermati positivi e la permanenza domiciliare fiduciaria per le persone provenienti dalle aree colpite (quale sia la vera differenza di effetti tra le due misure non è chiarissimo); la sottoposizione delle persone in arrivo nei porti e aeroporti al rilevamento automatico della temperatura corporea; e, in presenza di frequenti arrivi nel Sud e nelle Isole di proprietari di seconde case, che anche prima erano stati oggetti di divieti, gli obblighi di questi soggetti di osservare la permanenza domiciliare con isolamento fiduciario.
Sono notevolmente colpiti i trasporti di persone, rispetto ai quali il decreto del presidente del consiglio dei ministri dell’11 marzo, pur avendo sulle prime disatteso le proposte di una rigorosa misura di chiusura reiteratamente sostenuta dai presidenti di varie Regioni, li ha autorizzati all’adozione, nei limiti dei “casi di estrema necessità ed urgenza”, a una cosiddetta “programmazione del servizio” locale “finalizzata alla riduzione” e fino alla “soppressione” dei servizi locali. Così pure, ma in questo caso con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della Salute, può essere oggetto di discussione l’analoga possibilità di riduzione dei servizi automobilistici interregionali e dei mezzi di trasporto aerei, ferroviari e marittimi. Così, oltre al divieto assoluto di trasporti marittimi di persone per la Sardegna, molte restrizioni sono state introdotte nei collegamenti aerei, stabilendo che resti in attività, di massima, un solo aeroporto per regione, provocando rilevanti disagi (così, a differenza della Sicilia, in cui sono aperti due aeroporti, la Sardegna del Nord, assai malagevolmente collegata a Cagliari per via interna, è stata privata di ogni collegamento aeroportuale), e sono stati gravemente ridotti i numeri di voli in arrivo anche negli aeroporti lasciati aperti. [segue]

Addio don Vasco

IL MIO RICORDO DI DON VASCO PARADISI. DIO LO ABBIA IN SA SANTA GLORIA.
di Giacomo Meloni
Addio, don Vasco.
santelia-vasco-pPer molti anni ho seguito padre Vasco – frate carmelitano – dal suo impegno pastorale nella Chiesa del Carmine a Cagliari alla sua avventura
cristiana nel Quartiere di S. Elia.
Eravamo un bel gruppo di giovani universitari, gia’ impegnati nella Scuola Popolare di Is Mirrionis e promotori dei Comitati di Quartiere di Is Mirrionis, Stampace e Marina. [segue]

Elezioni. Chi vince, chi perde, riconteggi e di più

Interventi di Andrea Pubusa, Aldo Lino, Tonino Dessì, Franco Meloni. Il prof. Umberto Allegretti ritiene doveroso il ricorso per il riconteggio dei voti ai fini dell’ammissione del ballottaggio.
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caDoveroso pensare al riconteggio, ma senza illudersi di ribaltare il risultato
17 Giugno 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Quando si perdono le elezioni con uno scarto non grandissimo, di solito, si pensa ad un intervento salvifico della magistratura, che – come un deus ex machina – scende dal cielo e rimette le cose a posto. E cioè ribalta il risultato. Raramente però questo rimedio funziona. [segue]

Sa die de sa Sardigna. La traversata del deserto

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2613821c-b5f2-4c8c-baf3-19529f2f4fd028 Aprile 2019
di Gianni Loy*

Introduzione.
Sa Die e sa Sardigna, la Giornata del popolo sardo, istituita nel 1993 con la legge regionale n. 44, non è conseguenza della rivolta dei cagliaritani che, il 28 aprile del 1794, costrinsero alla fuga il viceré ed i funzionari sabaudi, né del successivo biennio rivoluzionario. Questa giornata è, piuttosto, la conclusione di un complesso percorso, avviatosi negli anni 70 del secolo scorso, sfociato prima nella aspirazione, e poi nella decisione di istituire una giornata di riflessione, diciamo pure di festa del popolo sardo. Un processo che si inserisce nella lungo dibattito sull’autonomismo della Sardegna che, in quegli anni, ha visto una forte ripresa del sentimento identitario. Sentimento che veniva nei fatti represso da un processo di centralizzazione politica e culturale. Processo che impediva l’espressione delle culture del popolo sardo, non di rado vietandole o ostacolandole, spesso confinandole all’esteriorità dello stereotipo o del folklore.

Nella nostra storia recente, a partire da quegli anni si osserva una evidente inversione di tendenza, testimoniata da alcuni fatti, significativi, a mio avviso, per comprendere l’attualità di questa festa e suggerire alcune riflessioni per il futuro. Si tratta di tre momenti, scelti tra tanti altri, perché dal loro concatenamento emerge la complessità di un processo democratico al quale hanno preso parte diverse componenti della società sarda fornendo un indirizzo alle istituzioni che, in ultima analisi, hanno poi approvato la legge istitutiva de Sa Die de Sa Sardigna.

2. a) Il movimento sindacale e dei lavoratori della seconda metà degli anni 70. La Federatzione sarda metalmeccanicos.

In primo luogo, occorre far riferimento all’azione del movimento sindacale e dei lavoratori della Sardegna. Le loro lotte per la difesa del lavoro, a partire dalla categoria dei metalmeccanici nella seconda metà degli anni 70, sono state caratterizzate dalla ricerca dell’unità (per andare oltre le tradizionali differenze ideologiche delle sigle sindacali) e dalla centralità della Sardegna. Quei lavoratori hanno incominciato a manifestare ed a dibattere recuperando la lingua sarda. Nel 1979, in occasione della grande “Marcia po su tribagliu”, hanno marciato all’insegna dell’Inno Procurare e Moderare, ereditato dal passato e destinato, quarant’anni più tardi, ad essere riconosciuto quale Inno Ufficiale del Popolo Sardo. Non certo per rinnegare il canto dell’Internazionale, che pure hanno coltivato e tradotto in lingua sarda, ma per riconoscere l’identità sarda quale fattore di dignità e di opportunità per il loro e per il nostro futuro. Quell’idea risultava essenziale per il programma economico che intendevano contrapporre al modello di sviluppo neo-coloniale sino ad allora imposto alla Sardegna. Truncare sas cadenas era uno degli slogan delle manifestazioni, in Sardegna e a Roma. Quell’idea spinse la Federazione Sarda Metalmeccanicos, (tra i suoi leader Salvatore Cubeddu ed Antonello Giuntini) a recuperare l’autonomia, anche organizzativa, dalle centralistiche, organizzazioni sindacali dell’epoca ed a proporre quel modello, che sarebbe stato solo parzialmente accolto, alle confederazioni sindacali della Sardegna ed ai partiti sardi, per lo più concepiti, al pari dei sindacati, come terminali di un’organizzazione verticistica che, come ricordava all’epoca Umberto Allegretti, costituiva uno dei più potenti strumenti di etero direzione e ostacolavano lo sviluppo di ogni autonomia.

2. b) L’esperienza della rivista “Nazione sarda”.

In secondo luogo, è da ricordare l’importanza dell’esperienza di un gruppo di intellettuali di diversa origine politica, democristiani, comunisti, socialisti, sardisti, che nel 1978, quando la caduta del muro di Berlino non era neppure all’ordine del giorno, hanno creato un luogo di incontro attorno ad una rivista, Nazione Sarda, per riflettere sui temi dell’autonomia della Sardegna e sul suo rilancio dopo la fallimentare esperienza dei primi 30 anni, caratterizzati dal “succursalismo”1.

Questi intellettuali, l’anno seguente, avrebbero lanciato l’idea di un’eccezionale mobilitazione popolare “che porti alla convocazione di un’assemblea costituente con il duplice compito di definire un programma di immediata risposta autonomistica e di formulare uno statuto di autonomia che consenta ai Sardi di liberarsi dalla dipendenza, di esprimere compiutamente la loro identità nazionale e di esercitare, finalmente, l’autogoverno”.2

E’ doveroso ricordare l’importanza di quel movimento che, superando gli angusti schemi della politica tradizionale, ha profondamente inciso sulle tematiche dell’identità, del concetto di nazione, dell’autonomia, idee che hanno costituito la base sia per una ripresa del dibattito intellettuale, sia per ispirare movimenti ed orientamenti culturali e politici che hanno accompagnato gli ultimi 40 anni di storia della Sardegna.

E’ doveroso ricordare almeno i principali intellettuali di quella esperienza, almeno quelli che ci hanno lasciato ma che non possiamo dimenticare. Essi, infatti, sono entrati a far parte, definitivamente, della storia del popolo sardo, della nostra storia. Antonello Satta. Eliseo Spiga, Giovanni Lilliu, Elisa Spanu Nivola, Gianfranco Contu.

2. c) Il dibattito della prima metà degli anni 80.

In terzo luogo, occorre ricordare una successiva esperienza, tra il 1983 ed il 1986. Si tratta di una serie di incontri che misero assieme il contributo di quel movimento sindacale e popolare di cui abbiamo parlato, di alcuni di quegli intellettuali provenienti dall’esperienza di Nazione Sarda, e di altri ancora. Una serie di incontri che avevano all’ordine del giorno la possibilità di dare uno sbocco alla ripresa del tensioni autonomistiche che si manifestavano in Sardegna con una iniziativa comune.

A quegli incontri, a conferma della trasversalità del tema, parteciparono intellettuali e dirigenti politici diversa estrazione, comunisti, democristiani, sardisti, socialisti di democrazia proletaria sarda. Questi i loro nomi, come compaiono nel verbale della riunione plenaria svoltasi a Cagliari il 4 dicembre 1985: Cardia Umberto, Carrus Nino, Cocco Camillo, Columbu Michele, Contu Gianfranco, Cossu Antonio, Cubeddu Salvatore, Dessanay Sebastiano Francioni Federico, Ganadu Antonio, Lilliu Giovanni, Loy Gianni, Masala Francesco, Oppo Augusto, Pili Domenico, Satta Antonello, Selis Giammario, Spanu Nivola Elisa , Spiga Eliseo, Usai Giuseppe,

E’ stato in occasione di quegli incontri che ho sentito avanzare formalmente sia l’idea della istituzione di una Festa del Popolo sardo che la proposta della data del 28 aprile. Data che apre un lungo arco storico che si concluderà con la condanna dei martiri di Palabanda. E’ probabile che tale idea possa essere stata avanzata anche precedentemente. Di certo, è documentata, proprio in quegli anni, in un articolo sulla rivista Ichnusa, del 1985, a firma Salvatore Cubeddu3.

Quegli incontri furono vivaci, anche perché si mettevano a confronto culture tradizionalmente antagoniste; vanno richiamati perché dimostrano la capacità aggregativa delle idee di identità, di nazione, di popolo

Ho richiamato questi riferimenti, tra tanti altri possibili, perché sono straordinariamente attinenti alla Giornata, a Sa Die de Sa Sardigna, perché dimostrano, a mio avviso, che nessuno, se non il Popolo Sardo, può rivendicare alcuna primazia sulla giornata. Essa, in definitiva, è espressione esclusiva di un sentimento collettivo, della aspirazione di un popolo, che vuol testimoniare con orgoglio la propria identità, a riconoscersi, anche simbolicamente, in un giorno di festa. Sa Die, in ultima analisi, è del tutto estranea ad ogni possibile strumentalizzazione ed al di sopra di ogni dinamica politica.

2. d) – Il ruolo delle istituzioni.

E’ doveroso ricordare anche un ultimo dettaglio, che dettaglio non è. Cioè il fatto che oggi celebriamo questa giornata grazie ad una decisone delle istituzioni che, recependo le tensioni, le aspirazioni e le proposte di quei movimenti, diversi anni più tardi, persino quando i segnali provenienti dalla società erano meno forti che nel passato, di istituire, per legge, sa Die de sa Sardigna. Si è trattato di una espressione di democrazia, in senso sostanziale, da apprezzare anche perché, come dirò, il ruolo delle istituzioni è e dovrà essere centrale.

Agli storici il compito di studiare quest’ultimo scorcio di storia. Noi abbiamo dinanzi una giornata, che è celebrazione ma che dovrà assumere, sempre di più, il carattere di grande e partecipata festa popolare. Festa che evoca, prima di tutto, le idee di nazione e di popolo. Alcune osservazioni al proposito:

Un sostantivo ed un aggettivo qualificativo.

Nel far riferimento al popolo sardo, utilizziamo un sostantivo ed un aggettivo. Ciò che qualifica, tuttavia, è sempre l’aggettivo. Non un popolo qualunque, quindi, ma un popolo che fa riferimento ad un territorio, la Sardegna, alla sua storia ed alla sua cultura. Un popolo potrebbe non abitare la propria terra. I nostri conterranei emigrati non smettono di appartenere al popolo sardo, alcuni popoli non possiedono alcun territorio e neppure ambiscono a possederlo (come il popolo rom); altri hanno a lungo vissuto, o vivono, lontani dalla propria terra. Forse per aver male interpretato la Bibbia, laddove il Signore, dopo aver creato l’uomo, (“maschio e femmina li creo”), disse loro di riempire la terra e di sottometterla4, ci consideriamo padroni del territorio. Invece, siamo piccola cosa, non siamo noi a dominare la nostra terra, intesa come territorio, come storia, come cultura, bensì siamo da essa dominati, siamo tra i tanti che appartengono al popolo sardo per poi lasciare quel posto ad altri. Come avviene per la “nostra” casa, che invece è casa che ci ospita, come ha ospitato altri prima di noi ed altri ospiterà dopo di noi. Niente ci appartiene, siamo noi ad appartenere alla nostra terra, alla nazione sarda, al popolo sardo. La stragrande maggioranza di noi sarà dimenticata, altri verranno a prendere il nostro posto. Tuttavia, per tutto il tempo in cui apparteniamo alla Sardegna, abbiamo l’opportunità di operare, nel bene e nel male, conservando ed arricchendo il suo territorio, oppure devastandolo; abbiamo l’opportunità di arricchire la sua storia e la sua cultura, oppure di immiserirla. Abbiamo l’opportunità di contribuire alla crescita economica ed al benessere della collettività, oppure di sottrarre risorse per il nostro egoismo. In ogni caso la Sardegna sopravvivrà.

La nozione di “nazione”.

Non spenderò neppure una parola sull’annoso dibattito relativo alla nozione di “nazione”. Mi limito ad indicare quale sia, a mio avviso l’accezione da accogliere e quale invece, quella da respingere5.

Da accogliere, sicuramente quella formulata da Ernest Renan6, secondo il quale la nazione altro non sarebbe che “un plebiscito di tutti i giorni“, il “desiderio di vivere insieme” basato sul “comune possesso di una ricca eredità di ricordi” e sulla “volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa“. Si tratta di una nozione appartenente ad una visione di carattere soggettivistico, volontaristico, che per taluni aspetti si trova anche in Rousseau, nello stesso Mazzini e, oggi, in Habermas7. Trovo che la formulazione di Renan rimanga la più chiara ed apprezzabile. A me è chiaro che la nazione sarda, indipendentemente dai profili politici, che non hanno alcuna conseguenzialità con l’idea di nazione, (nel senso che una nazione potrebbe, ma non deve necessariamente ambire a trasformarsi in Stato) richiede che quel plebiscito venga ripetuto ogni giorno.

Altrettanto è chiaro che la lingua, ad esempio, pur non costituendo elemento costitutivo, sia quasi indispensabile, e quindi da coltivare quale espressione del “voler continuare a far valere l’eredità ricevuta”. Certamene da respingere, invece, il riferimento alle concezioni naturalistiche di nazione che, nelle espressioni più estreme, hanno portato alle aberrazioni del nazismo ed ai genocidi, anche recenti, nel cuore dell’Europa ed in tutto il mondo.

Il popolo sardo di oggi.

Il popolo sardo, il popolo sardo di oggi, è costituito dalle persone che, in riferimento ideale alla terra ed alla storia della Sardegna, condividono la fatica di vivere, condividono la speranza nel futuro, condividono la solidarietà, hanno coscienza di appartenere ad una collettività ed operano, collaborando, per il suo progresso.

Del popolo sardo, pertanto, fanno parte anche i miei amici rom e sinti, slavi e di ogni parte del mondo, Vasjia, Jasmina, Cheng, tutti quelli che hanno eletto la Sardegna quale loro terra e contribuiscono con il loro lavoro, con le loro opere, la loro cultura, al progresso della terra che li accoglie. Così, del resto, è sempre stato nella storia della Sardegna, sin dal tempo dei suoi primi abitatori. Crogiolo di persone, di gruppi, di comunità, non di rado essi stessi invasori, inizialmente, che hanno aderito al patto costitutivo, non scritto, del nostro popolo. Si tratta di Comunità, sarde, che a volte conservano ancora tratti distintivi della loro cultura e della loro lingua d’origine (questa mattina, nella Messa celebrata in Cattedrale, alcuni hanno pregato con la loro lingua, o con la loro variante) sino a divenire parte integrante del popolo sardo. Così avverrà per i nuovi arrivati che incominciano a conoscere, nei banchi delle nostre scuole, la loro nuova patria.

Un popolo, ogni popolo è sempre in cammino. Anche il popolo sardo attraversa il deserto, alla ricerca della terra promessa. L’obiettivo è un mondo di pace, di benessere, dove regnino l’armonia, la solidarietà. Ma perché ciò avvenga, lungo il cammino dovrà superare ancora tante prove, smascherare i falsi idoli, vincere le tentazioni di tutti gli egoismi. Dovrà riuscire a comporre i conflitti che dividono lo stesso popolo, lasciandolo esposto ai predatori che arrivano dal cielo e dal mare, a volte, con la complicità dell’autonomia.8 Il nostro popolo, a sua volta, è sparso per il mondo, e potrà continuare ad esserlo sinché le persone che lo compongono sapranno rinnovare i legami di appartenenza con la terra d’origine.

La “appartenenza”, una categoria peculiare e distinta da altre categorie della vita e della politica.

Non possiamo neppure ignorare che l’appartenenza ad un popolo, ad una nazione, è soltanto una delle categorie di appartenenza delle persone. All’interno del nostro popolo sussistono distinzioni per sesso, religione, etnia, esistono ricchi e poveri, conflitti interpersonali, divisioni politiche, anche profonde, che suggeriscono sentieri diversi e che, a volte, propongono differenti e contrapposte vie d’uscita.

Ebbene, il nostro patto di appartenenza, la nostra identità, non può essere confusa con i programmi politici, è categoria che sta al di fuori, al di sopra di essi, che ci consente di celebrare una comune ricorrenza, di vivere assieme la Festa, che ci aiuta a ricordare che, al di la delle divisioni contingenti, ci riconosciamo come popolo che condivide una comune aspirazione. La consapevolezza dell’appartenenza alla nazione sarda, anche nel rito della festa, potrebbe farci prendere coscienza, spogliandoci dei nostri stessi pregiudizi, di essere in molti, avveduti e coesi. Medas, abbistos e unidos. Muchos, cuerdos e unidos.

I sardi. Un popolo ospitale.

La storia ci racconta di invasioni, di conquiste, ci ha costretti, per lunghi secoli, a temere il mare perché porta d’accesso dei predatori. Eppure, anche in costanza di quei pericoli, mai abbiamo perduto il senso dell’ospitalità. L’ospitalità dovrà continuare ad essere una delle peculiarità fondamentali della nostra appartenenza alla nazione sarda. Una nazione che coltiva l’amicizia con gli altri popoli, che ripudia la guerra, che invoca il dialogo, che accoglie i perseguitati. Un popolo solidale e consapevole di appartenere ad un’unica razza umana composta da tanti popoli che, come il nostro, vagano nel deserto e che, collaborando, potranno più facilmente individuare il sentiero che conduce alla terra promessa.

Il senso della festa. Un’occasione per rinnovare il patto di convivenza.

Il giorno della Festa del popolo sardo è, e dovrà continuare ad essere, occasione per rinnovare il patto di convivenza del popolo sardo, l’impegno a trasmettere l’eredità ricevuta. La cultura e la lingua sono parti inseparabili dell’ambiente naturale che abbiamo il dovere di tramettere intatto, e se possibile migliorato, alle future generazioni. Ciò richiede un impegno da parte di tutti ed in special modo da parte delle istituzioni:

Da parte di tutti: l’impegno, solenne, a trasmettere ai nostri figli, assieme ai beni ambientali e materiali, anche i tratti culturali, positivi, ereditati dai nostri padri e dalle nostre madri, a partire dalla lingua, dalle conoscenze, dalla storia nostra familiare e collettiva.

Da parte delle istituzioni: l’impegno a garantire a tutti coloro che liberamente lo desiderino, il diritto di poter apprendere la lingua del popolo sardo sin dalla tenera età, dalla scuola materna, a potersi esprimere anche pubblicamente con la propria lingua, il diritto a conoscere a fondo, sin dalla scuola, la propria storia e la propria cultura e a poter riflettere sul loro valore.

Il ruolo delle istituzioni, nel tempo di una globalizzazione che tende ad omologare ogni cosa, che impone stili di vita funzionali al profitto, che facilmente, rapidamente ed impietosamente cancella anche i tratti culturali dei popoli e delle nazioni e le loro tradizioni, è essenziale. Le nazionalità infra-statuali che meglio son riuscite a conservare il proprio patrimonio culturale ed a farne strumento di progresso e di benessere, sono quelle le cui istituzioni hanno investito massicciamente anche nella protezione e promozione della lingua e della cultura, intrecciando tali interventi con le politiche di sviluppo economico del territorio. In definitiva, per un verso, il ruolo delle istituzioni, a partire dalla Regione, è essenziale per la promozione dell’identità e, per altro verso, il senso di appartenenza e di coesione del popolo sardo può costituire elemento fondamentale per il raggiungimento del comune benessere materiale spirituale.

Siamo in molti, avveduti e capaci di trovare un accordo.

L’istituzione de Sa Die de sa Sardegna è la conclusione di un processo intellettuale e popolare di riappropriazione della propria identità, di un movimento recente ma radicato nella storia millenaria dei sardi. Di un movimento che ha simbolicamente individuato un momento della storia la cui rievocazione sarà occasione, ogni anno ed ogni giorno, per rinnovare il patto democratico del popolo sardo. La proclamazione, da parte della massima istituzione democratica del popolo sardo, de Sa Die de Sa Sardigna, e la scelta di un Inno che affonda le proprie radici nella storia e nella tradizione popolare, apre la strada ad un percorso che auspichiamo possa essere comune e condiviso da quanti, indipendentemente dalla razza, dalla lingua, dalla religione, si riconoscono, oggi, nel popolo sardo. L’autonomia, ricordava ancora Dessanay, “verrà soltanto quando i sardi, con la piena coscienza della propria identità, si daranno poteri coerenti con i contenuti originali della nostra autonomia, quelli di ordine economico, quelli di ordine sociale e quelli di ordine culturale”9.

Confesso che mi è costato, contro la mia abitudine, leggere questa relazione in lingua italiana. Spero che, almeno in occasioni come questa, non accada mai più. La lingua, pur non costituendo elemento fondante dell’appartenenza al popolo sardo, è elemento di straordinaria importanza. Auspico che le istituzioni se ne facciano interpreti, che la utilizzino nelle occasioni ufficiali, che siano d’esempio, che abbiano l’orgoglio di accogliere i visitatori con le parole, ospitali, della lingua nostra. Che comprendano quanto sia urgente ed importante far si che si riprenda a parlare, a parlare tutti, la nostra lingua.

Bona festa.
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1 Vindice Gaetano Ribichesu, in “Nazione Sarda”, 1978, novembre – dicembre)

2 Lo si veda in Salvatore Cubeddu, Quando è finita la prima autonomia della Sardegna?, in Fondazione Sardinia, http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=14224

3 Salvatore Cubeddu, Quale sindacato per il futuro della Sardegna? in Ichnusa, n. 9, 1985.

4 Gen. 1, 26-28.

5 Per una rassegna teorica si veda “Francesco Tuccari, Idea di Nazione, in “Enciclopedia delle scienze sociali”, 1996, ora anche in: www.ddddd.com. Per quanto riguarda la Sardegna si veda: Francesco Casula, La nazione sarda nella storia, in Fondazione Sardinia, http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=15316

6 Ernest Renan, Che cos’è una nazione?, Donzelli, 2004.

7 Gli Stati post-moderni, secondo Habermas, non possono avere fondamenti etnici o morali o religiosi, perché questi sarebbero non inclusivi, e ciò non consentirebbe loro di dare cittadinanza a quella «costellazione post-nazionale» che invece l’Unione europea deve essere, specie se aperta alla immigrazione.

8 “L’autonomia realizzata a partire dal secondo dopoguerra … non è riuscita a bloccare il centralismo statale italiano e, conseguentemente, la politica di tipo coloniale … con l’aggravante che ora queste operazioni venivano fatte con la complicità dell’autonomia”. Sebastiano Dessanay, Intervento, Seduta del Consiglio Regionale della Sardegna in occasione delle celebrazioni del trentennale dello Statuto, 1978.

9 In Salvatore Cubeddu, loc. ult. cit.
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*Relazione di Gianni Loy in Consiglio regionale in occasione de Sa die de Sa Sardigna il 28 aprile 2019 (testo fornito dall’autore).

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Amici sardi della Cittadella di Assisi

b0014491-fbe6-41c9-b080-355d2824f5d3Tradizionale pizzata agostana con l’amico Gino Bulla, direttore di Rocca, organizzata dagli “Amici sardi della Cittadella di Assisi”.
(Segue)

La città ai cittadini. No allo smantellamento dell’Ospedale civile San Giovanni di Dio

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di Franco Meloni
Oggi, venerdì 1° giugno, alle ore 20 nel salone parrocchiale di Sant’Anna, in via Fara 19, si terrà un incontro pubblico promosso dal “Comitato contro la chiusura del San Giovanni di Dio”, per mantenere nella struttura un presidio sanitario al servizio della popolazione del centro storico di Cagliari.
I cittadini di Stampace e degli altri quartieri storici vogliono precise e formali assicurazioni positive rispetto a quanto richiesto nell’apposita petizione scritta, che porta in calce oltre 1500 firme e che di recente è stata consegnata al Sindaco Massimo Zedda. Nonostante le dichiarazioni dei rappresentanti della proprietà dell’edificio (Regione e Università) riportate dai media fin dal 2015 e confermate ripetutamente anche in tempi recenti, si ha il sospetto che si aspetti il decorso del tempo fino a considerare ineludibile la chiusura totale del Nosocomio, così come accaduto per altre importanti strutture storiche della città. Ci riferiamo al Carcere di Buoncammino, all’ex Ospedale militare, all’ex Clinica Macciotta, a una serie di edifici militari dismessi, e non solo. Il Sindaco dopo essersi dichiarato completamente d’accordo con i cittadini firmatari, organizzati nell’apposito Comitato, non è riuscito allo stato a convocare le parti in causa per provocare le auspicate risposte nell’interesse degli abitanti del centro storico e oltre. Preoccupa il fatto che le Amministrazioni pubbliche non riescano a costruire convincenti alternative alla chiusura degli edifici, così dimostrandosi estranee alle esigenze dei cittadini, specie dei più poveri tra loro, incapaci di affrontare le situazioni con la strumentazione giuridica tradizionale e soprattutto innovativa. Precisamente ci riferiamo a quelle situazioni che vedono molte Amministrazioni civiche praticare virtuosi percorsi di riuso degli edifici storici (e spazi urbani), qualche volte con la conferma degli usi tradizionali, altre volte con l’individuazione di soluzioni diverse, anche appunto fortemente innovative, come quelle sperimentate in molte città italiane e non solo (al riguardo vedasi un’interessante articolo pubblicato in questa stessa news). In ogni caso deve evitarsi la sottrazione di queste questioni al dibattito a cui i cittadini hanno diritto di partecipare, per orientare le scelte finali delle Amministrazioni pubbliche competenti. Riportiamo più avanti una riflessione del nostro amico e concittadino Umberto Allegretti, professore dell’Università di Firenze. Proprio di Firenze, città dove abita da molti anni, riporta un’esperienza di ricupero esemplare all’originario uso ospedaliero (e non solo) di un’antica struttura (l’Ospedale Santa Maria Nuova), che conferma e rafforza i contenuti della nostra “vertenza” per la salvezza dell’Ospedale San Giovanni di Dio. Umberto Allegretti sarà a Cagliari mercoledì 6 giugno alla Mem di via Mameli per la donazione di una mole di documenti (archivio Allegretti-Crespellani) all’Archivio civico di Cagliari, ospitato dalla stessa Mem. Si tratta di documenti riguardanti in prevalenza le esperienze dei cattolici democratici di Cagliari, animatori del Gruppo Nuova Comunità, fatte negli anni 60 e delle lotte popolari del quartiere di Sant’Elia (fine anni 60 e primi anni 70) e del centro storico della città.
ccdq-caProprio le esperienze di lotte urbane di quegli anni e dei successivi, caratterizzate da autentica partecipazione popolare, organizzate in prevalenza dai comitati e circoli di quartiere, richiamano lo spirito civico e l’impegno sociale che animano oggi – come ieri – la lotta dei cittadini di Cagliari per il diritto al loro Ospedale, autentico bene comune, da preservare da degrado e inutilità.
Nell’esprimere tutta la nostra solidarietà ai cittadini impegnati nella “vertenza”, dando loro, da parte nostra, tutto l’appoggio possibile, richiediamo con forza che le Autorità e i politici, che speriamo siano presenti all’iniziativa, si impegnino concretamente e senza perdere tempo per la salvaguardia e il riuso dell’Ospedale San Giovanni di Dio, in coerenza con le richieste dei cittadini medesimi e degli esiti del dibattito democratico e partecipato che in merito deve sostenere ogni decisione delle Amministrazioni competenti.
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Umberto AllegrettiLa lettera di Umberto Allegretti.

Ai miei concittadini del Comune e della città metropolitana di Cagliari.

Scrivendo poco tempo fa al Sindaco Zedda e al presidente del Consiglio Comunale Portoghese, ho ritenuto e tuttora ritengo di segnalare l’opportunità che nel centro città resti collocato un centro ospedaliero, facilmente raggiungibile da tutti gli abitanti, quelli che vi risiedono, quelli privi di auto personale che non possono agevolmente raggiungere gli attuali ospedali posti ai margini del complesso urbano e coloro che da turisti o comunque di passaggio nella città hanno del ricorso a un tale centro quella che talora può essere una necessità urgente.

Può essere d’esempio il caso di Firenze, dove l’antico ospedale di S. Maria Nuova, risalente al Seicento, è stato mantenuto aperto e ora interamente rinnovato, nonostante la presenza di importanti presidi ospedalieri ai margini della città, con grande soddisfazione dei cittadini.

Perché non potrebbe l’ospedale centrale di Cagliari essere riorganizzato? Oltretutto, come ben noto, esso è una delle migliori architetture della città ottocentesca!

Ciò non solo sarebbe positivo in sé ma nulla toglierebbe all’accesso rapido ai presidi ospedalieri posti ai margini o fuori del centro cittadino da parte dei cittadini che risiedono o operano nel resto della città metropolitana.

Sebbene possa essere osservato che il Sindaco del comune cagliaritano e vertice massimo della città metropolitana non ha responsabilità immediate in decisioni di questo tipo, certo il suo parere e la sua influenza restano e devono restare massime ed ascoltate dalle altre autorità competenti.

Egualmente, i cittadini vanno ascoltati se, come oggi le forme moderne di democrazia partecipativa richiedono, si esprimono in questa direzione.

Auguro pertanto a quella che nonostante la lunga residenza in continente resta la mia città, dove del resto spesso mi reco, che col contributo di tutti venga presa la decisione nel senso auspicato.

prof. avv. Umberto Allegretti
smarianuova-fiOspedale Santa Maria Nuova, Firenze.
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DOCUMENTAZIONE
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[youtg.net del 21 marzo 2018] Millecinquecento firme per salvare il San Giovanni di Dio, Zedda chiama la Regione
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CAGLIARI. No allo smantellamento del San Giovanni di Dio, ospedale nel cuore di Cagliari: il centro storico non può rimanere senza un servizio assistenziale garantito da 150 anni. Questa la richiesta di 1500 firmatari di una petizione che si sono rivolti al sindaco Massimo Zedda: il primo cittadino ha fatto sua la richiesta e ha assicurato che si farà carico di “chiedere alla Regione e all’Università di partecipare a un incontro pubblico per discutere del futuro dell’edificio, degli altri spazi presenti in zona e inutilizzati da tempo e dei contenuti della petizione. Argomenti che”, ha ribadito il sindaco Massimo Zedda, “interessano tutta la città, i suoi abitanti e i suoi visitatori”. Una delegazione dei firmatari del documento ha incontrato Zedda. I cittadini chiedono “il mantenimento in funzione della struttura in modo da garantire il «potenziamento dei servizi territoriali per costruire un nuovo modello di sanità più vicina alle persone. Lanciano anche un appello per “mantenere i due reparti di Dermatologia e Oculistica rimasti nel nosocomio», dopo la dismissione degli altri reparti, «di spostare al San Giovanni di Dio il servizio ambulatoriale ATS di viale Trieste, in procinto di essere trasferito in quanto inserito in struttura non a norma, e di attivare un servizio di almeno h12 di guardia medica per il primo soccorso».
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[Unica 30 aprile 2015] SAN GIOVANNI DI DIO: NON SOLO UN MONUMENTO
Non solo un monumento: dal 30 aprile al 10 maggio visite guidate all’ospedale ai sotterranei, dibattiti, concerti e mostre per i 171 anni dell’Ospedale Civile di Cagliari.
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CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA

XV Legislatura

Mozione n. 406

AGUS – PERRA – BUSIA – ZANCHETTA – COMANDINI – COZZOLINO – COLLU – ZEDDA Paolo – USULA sul mantenimento di un presidio sanitario presso i locali dell’Ospedale San Giovanni di Dio di Cagliari.

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IL CONSIGLIO REGIONALE

PREMESSO che:
- 1′Ospedale San Giovanni di Dio di Cagliari è ubicato nel centro storico di Cagliari e rappresenta uno dei presidi ospedalieri dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Cagliari;
- la riforma della rete ospedaliera approvata dal Consiglio regionale il 25 ottobre 2017 ha definito la riorganizzazione delle rete ospedaliera della Regione con lo scopo di garantire la migliore assistenza sanitaria possibile alla popolazione;
- tale riforma ha previsto per l’Ospedale San Giovanni di Dio di Cagliari una funzione non assegnata e da ridefinire;

RILEVATO che
- i residenti del quartiere hanno espresso forte preoccupazione di fronte all’ipotesi del completo smantellamento di tutti i servizi sanitari operanti nell’ospedale e, recentemente, con un documento sottoscritto da 1.500 abitanti, si sono appellati al sindaco della città di Cagliari per chiedere un suo intervento presso la Regione al fine di promuovere presso gli enti competenti l’avvio di incontri e dibattiti che coinvolgano la popolazione residente sul futuro della struttura del San Giovanni di Dio e degli ulteriori spazi presenti in zona e inutilizzati da tempo;
- nella petizione i cittadini hanno proposto di mantenere attivi presso l’ospedale i due reparti di dermatologia e oculistica rimasti nel nosocomio, di trasferire presso i locali del San Giovanni di Dio il servizio ambulatoriale ATS di viale Trieste (in procinto di essere trasferito in quanto operante in struttura non a norma) e di attivare un servizio di almeno h 12 di guardia medica per il primo soccorso;

CONSIDERATO che:
- l’Ospedale San Giovanni di Dio di Cagliari rappresenta l’unico presidio sanitario del centro di Cagliari;
- il centro storico di Cagliari è caratterizzato da un notevole afflusso quotidiano di persone che si recano nella zona per usufruire dei numerosi servizi e attività commerciali insediate;
- con il forte aumento dei flussi turistici rilevato negli ultimi anni in città, il centro storico attraversa lunghi periodi dell’anno in cui è frequentato quotidianamente da migliaia di turisti;
- gli interventi di riqualificazione urbana messi in atto dall’amministrazione comunale di Cagliari sono orientati verso una progressiva pedonalizzazione dell’area ed un miglioramento generale del decoro urbano di tutta la zona, si rende necessario concordare obiettivi comuni tra l’amministrazione comunale, la Regione e l’Università di Cagliari, per sviluppare una visione generale di tutta l’area che preveda anche la definizione della destinazione d’uso di spazi e immobili attualmente inutilizzati, o con funzioni da ridefinire, come nel caso dell’Ospedale di San Giovanni di Dio;
- per scongiurare il ripetersi, questa volta nel centro della città, di un nuovo caso “ex Ospedale marino di Cagliari”, è necessario stabilire quanto prima il futuro dell’Ospedale di San Giovanni di Dio evitando che la struttura (risalente a metà del XIX secolo) possa nel tempo decadere e divenire un rudere su cui, in futuro, dover dibattere solo per deciderne la demolizione,

impegna il Presidente della Regione

1) attivare un confronto con i residenti del centro storico di Cagliari, con l’amministrazione comunale e con l’Università di Cagliari, per consentire di pianificare collegialmente il futuro dell’Ospedale San Giovanni di Dio e degli ulteriori spazi inutilizzati presenti in zona di proprietà regionale e dell’Università;
2) valutare la fattibilità delle proposte elaborate dagli abitanti del centro storico di Cagliari sull’ipotesi di utilizzo futuro dell’Ospedale San Giovanni di Dio.

Cagliari, 26 marzo 2018

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La mozione è stata approvata dal Consiglio regionale l’8 maggio 2018.

Valeria Saiu: “L’ultimo Capitolo della città pubblica”

valeriasaiu-libroL’ultimo Capitolo della città pubblica
I quartieri 167 e la costruzione delle periferie metropolitane.
Cagliari, 1962-1992

Edizioni LIStLab, 15,00€

[ListLab.eu] Negli anni del grande spreco edilizio, con Legge 167 si scrive in Italia l’ultimo grande capitolo della “città pubblica” e si avvia un inedito e complesso intreccio tra intervento pubblico e operazioni immobiliari private.
Cagliari, che presenta i tipici tratti della città meridionale, con tutte le similitudini e i suoi elementi peculiari, si offre come un osservatorio sulle contraddizioni e il senso di queste operazioni su cui si fonderà la costruzione del nucleo dell’attuale Città metropolitana.
Il libro propone uno sguardo trasversale sulle politiche, gli strumenti e le relazioni tra fenomeni sociali e trasformazioni dello spazio urbano, attraversando quattro dimensioni fondamentali del progetto: territorio-città-quartiere-comunità. È attraverso questa articolata struttura interpretativa che emergono i quartieri 167, non più periferie ma “centralità metropolitane” allo snodo di importanti relazioni territoriali. Nuove polarità da cui partire per il ridisegno dell’assetto strategico del territorio e il progetto dei futuri paesaggi dell’abitare
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- Sulla pagina fb di Valeria Saiu

Oggi a Cagliari. Ricordo di Luigi Crespellani, il Sindaco della ricostruzione

crespellani-lIl Consiglio comunale di Cagliari ricorda oggi Luigi Crespellani, il Sindaco della ricostruzione che s’impegnò come amministratore pubblico a ricostruire la città, distrutta dai bombardamenti. Crespellani fu anche il primo presidente della Regione Autonoma della Sardegna e poi senatore della Repubblica. Oggi, martedì alle 17,30, dopo l’intervento introduttivo del presidente del Consiglio comunale Guido Portoghese, la commemorazione ufficiale sarà svolta dall’ex presidente della Regione Pietro Soddu, dall’ex docente di Diritto pubblico Umberto Allegretti e dalla figlia di Luigi, Teresa Crespellani.

Sardegna

sardegna-dibattito-si-fa-carico-181x300Dibattito——————-
Lo spopolamento, la crisi della politica e il futuro della Sardegna, di Pietro Soddu
Il sito web della Fondazione Sardinia pubblica un saggio dell’autorevole uomo politico sardo, contando di intervenire prossimamente sul tema e sul saggio medesimo.
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Quando è finita la prima autonomia della Sardegna? di Salvatore Cubeddu. Sul sito web della Fondazione Sardinia.
Nel 1978-1979. Ma nascono anche le idee per un nuovo futuro: la nuova autonomia, la lingua e l’identità etnica e storica della Nazione Sarda, il nuovo modello di sviluppo industriale, la riscrittura dello Statuto, il Senato delle Regioni, il diritto di rappresentanza dei Sardi a Bruxelles, l’Assemblea Costituente del Popolo sardo.
(Segue)

Campagna elettorale. I partiti e L’Europa.

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img_4633di Roberta Carlini, su Rocca.
Non è facile scavare nel merito delle proposte di una campagna elettorale di rara bruttezza, molto al di sotto del livello dell’alfabetizzazione dell’elettore medio che già – si sa, purtroppo – non è alto. Ma volendosi cimentare nell’impresa, è necessario partire dall’Europa, o meglio dai patti siglati con l’Unione europea che impegnano il nostro paese, condizionano la sua politica economica e catalizzano da anni, e soprattutto dall’inizio della crisi economica, lo scontento dei cittadini. Non solo in Italia, e non solo nei Paesi che sono allo stesso tempo principali imputati e vittime della Commissione europea: l’ondata di protesta e di agitata ricerca di vie d’uscita è stata anzi finora più forte nei Paesi forti, dalla Gran Bretagna alla Germania alla Francia, che in quelli deboli come la Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Grecia.
L’Unione europea si è spaventata per Tsipras, e lo ha punito e costretto a tradire il patto con i suoi elettori; ma è stata squassata più che dagli indisciplinati greci dai sudditi di sua maestà britannica che hanno votato a favore della Brexit. E l’ondata di partiti nazionalisti, xenofobi e razzisti ha tracimato nel cuore politico europeo, a partire da Austria, Germania e Francia; per non parlare del blocco nero di Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia.

non confondere le acque
Dunque, l’Unione europea attraverso gli uomini-chiave delle sue istituzioni fa bene a preoccuparsi se un candidato alla guida di una delle regioni più ricche d’Europa, la Lombardia, fa dichiarazioni apertamente razziste; ma sa bene che il fenomeno non è isolato, semmai accomuna la locomotiva della produzione italiana ad altre regioni opulente del vecchio continente. Questo non è un motivo per abbassare la guardia, o fare spallucce; ma dovrebbe consigliare ai dirigenti europei di essere molto attenti a non mischiare i piani: per esempio, a non accomunare nello stesso discorso e nello stesso giorno gli attentati ai diritti e principi fondamentali sui quali l’Europa è costruita alle questioni di politica economica, le dichiarazioni sulla razza e quelle sul bilancio pubblico.
Anche perché, così facendo, si alimenta ancora di più il populismo che si vuole combattere: Pierre Moscovici, commissario Ue agli affari economici, ha stigmatizzato come «scandalose» le dichiarazioni di Fontana, candidato del centrodestra alla regione Lombardia, sulla difesa della razza bianca e allo stesso tempo ha duramente criticato chi, come il candidato pentastellato Luigi Di Maio propone di fare nuovo debito pubblico, anche superando il tetto del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Dando a tutti costoro la possibilità di gridare alla lesa maestà e di confondere le acque. Gli elettori italiani devono in primo luogo decidere se votare qualcuno che ha «la difesa della razza bianca» tra i suoi valori di riferimento; e poi, chiarite le posizioni sui princìpi fondamentali, valutare gli schiersmenti sulle proposte economiche, sull’azione di governo concreta che si vorrà sviluppare.

la gara a scaricare l’Europa
Andando nel merito di quest’ultima: non I Cinque stelle, che hanno sempre detto che dovrà decidere il popolo, non insistono neanche più sul referendum. Anche perché sanno che non è realizzabile, visto che la nostra Costituzione non consente referendum su materie regolate da trattati internazionali. E allora? La gara tra gli schieramenti è a scaricare l’Europa. Prima tutti facevano mostra di un alto tasso di europeismo, adesso c’è solo il piccolo partito radicale che ha l’Europa – con il segno più: + Europa – nel suo simbolo e nel suo programma.
Nel centrodestra, Berlusconi tiene basso il discorso e fa mostra di moderatismo, mentre i suoi alleati di Lega e Fratelli d’Italia incolpano Bruxelles di tutti i mali, a partire dall’immigrazione.
Il M5S, come s’è detto, ha sostituito la parola d’ordine del referendum sull’euro con quella dello sfondamento del 3%, ossia della regola di bilancio imposta più di un quarto di secolo fa a Maastricht.
Il Pd è caratterizzato da un europeismo riluttante: da un lato rivendica la sua fedeltà all’Unione e i buoni rapporti con Bruxelles (e Francoforte, sede della Bce) di uomini come Gentiloni e Padoan; dall’altro Renzi, populista dall’interno del potere, tiene bassissima la bandiera europea (che aveva eliminato dallo sfondo di palazzo Chigi nella campagna elettorale per il referendum costituzionale), e rivendica le passate sfide, la richiesta di flessibilità sui conti, i pugni sul tavolo. E anche alla sua sinistra, Liberi e Uguali chiede una profonda riforma dell’Europa – non una fuoriuscita unilaterale – ma si guarda bene dal fare di un europeismo federalista la sua cifra e bandiera.

mutamento dello scenario europeo
Si capisce bene il perché di tutto ciò: si corre per vincere, e il «brand» dell’Europa è al momento perdente. Ma qualsiasi governo si insedierà alla guida del Paese dopo il 4 marzo, dovrà fare i conti con una procedura d’infrazione per deficit eccessivo rinviata dallo scorso autunno alla primavera; con la compatibilità dei suoi atti con le regole firmate a livello internazionale; con le stabilità o instabilità dei mercati finanziari ai quali si va a chiedere di sottoscrivere debito pubblico, e con le mosse di politica monetaria della Bce.
Non solo. Dovrà fare i conti con il mutamento dello scenario europeo, innescato dalla possibile scelta di un governo di grande coalizione in Germania nel cui programma Spd e Cdu-Csu hanno messo al primo posto la riforma della governance europea.
A guardare sotto gli slogan e dentro i programmi, c’è poca traccia di tutto ciò. Le promesse elettorali, dal reddito di cittadinanza o dignità dei Cinque stelle e di Berlusconi, alla costosissima flat tax, alle mance a destra e a manca, se realizzate porterebbero allo sforamento dei tetti imposti dalla Commissione. Ma attenzione:
anche se non esistesse l’Europa né il suo patto di stabilità – che ha aggiornato gli originari parametri di Maastricht, imponendo non solo i rispetto di quei tetti ma anche le regole per il percorso di rientro dagli squilibri – la nostra Costituzione, prima ancora che il buon senso contabile, impone di mettere delle coperture a fronte di ogni spesa.

fare nuovo deficit non è una bestemmia
È legittimo, anzi doveroso, avanzare proposte per stimolare l’economia, migliorare il welfare state, coprire i bisogni delle persone in difficoltà; ma bisogna dire con quali risorse pubbliche pagare tutto ciò. Fare nuovo deficit non è una bestemmia né una violazione di leggi naturali, ma bisogna essere sicuri del fatto che queste spese (o minori entrate) porteranno benefici all’economia e il debito rientrerà in futuro, invece che accelerare.
Su questo, l’esperienza del governo Renzi dovrebbe aver insegnato qualcosa. Nonostante la comoda vulgata dell’Europa cattiva e arcigna, molto extra-deficit è stato concesso all’Italia, sotto il nome di “flessibilità”, ed è stato usato per togliere la tassa sulla prima casa per tutti, anche i più abbienti, e per incentivare le assunzioni stabili, senza però, in quest’ultimo caso, riuscire nell’obiettivo. A volte si ha l’impressione che l’Europa sia un perfetto alibi per trovare un cattivo di turno su cui scaricare il malcontento, evitando di prendersi la responsabilità di scelte che possono essere anche sbagliate: nel qual caso, sarebbe bene fermarsi a riflettere e cambiare indirizzo. Per esempio, mirando le spese in deficit agli investimenti, in infrastrutture fisiche o sociali, capaci di generare nuovo reddito e dunque nuove entrate anche per lo Stato.
Se si presentassero con proposte simili, e non con demagogia antieuropea e mance per gli elettori, i partiti in campo potrebbero sfidare un establishment europeo che nelle principali capitali ammette le sue difficoltà; e partecipare al processo di riforma che – forse – sarà innestato dal nuovo governo tedesco, e da un rinnovato asse con la Francia di Macron. A meno di non lasciare, come nel passato, che la guida franco-tedesca decida per noi, che mentre a parole facciamo finta di insultarli e sfidarli nei fatti ci accodiamo, e speriamo di ricevere qualche briciola nel traino.

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Per connessione: da Aladinews del 5 gennaio 2018
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di Umberto Allegretti su Rocca
Un bilancio dell’anno appena trascorso per quanto riguarda l’Unione Europea non può esser pieno di molte ombre e di qualche luce, ombre e luci talora fra loro commiste. Le questioni si affollano e qui sceglieremo di accennare solo ad alcune che riteniamo particolarmente importanti.
La tela di fondo di tali questioni è data dal problema delle istituzioni europee come tali, che hanno certamente bisogno di pro- fonde ristrutturazioni. Un’Europa «sociale», un completamento dell’Unione sui vari aspetti del problema economico, una sua incisività sulla politica mondiale, rappresentano i settori, o alcuni dei settori, che avrebbero necessità, nell’attuale quadro mondiale, di una struttura dell’Unione più democratica, più efficace, meno «sovranista» più capace di affrontare i problemi gravissimi posti dalla situazione del pianeta in un’età di squilibrio e di guerra. Il problema istituzionale è affrontabile, come è stato notato, su due piani: con una migliore applicazione delle possibilità che già il Trattato di Lisbona prevede, e con una revisione di aspetti importanti del Trattato.

le cose da cambiare
Nella prima direzione, oggetto di importanti proposte nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato il 13 settembre davanti al Parlamento europeo dal Presidente della Commissione Juncker – la cui azione complessiva appare tuttora, salvo errore, rispetto ad altri organi europei quella più incisiva sulle proposte e i comportamenti dell’Unione –, si dovrebbe pensare di attuare una serie di passaggi dell’Unione a politiche più efficaci previste dal Trattato ma finora scartate. Per esempio, sarebbe possibile già ora applicare le possibilità di cosiddette «passerelle», che consentirebbero di passare in seno al Consiglio dalla necessità dell’unanimità degli Stati al voto a maggioranza qualificata, come nei settori della politica estera e delle politiche fiscali. Come pure di passare, per quanto riguarda il ruolo del Parlamento, dalla procedura di semplice parere a quella codecisionale.

problemi istituzionali
Altre variazioni rispetto alle pratiche attuali richiederebbero peraltro – come notato in un articolo dell’autorevole Paolo Ponzano, già alto funzionario europeo e ora, oltre a una forte esperienza all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, docente al Collegio europeo di Parma – elementi di modifica dei Trattati e sono perciò più difficili da attuare. Anche se bisogna tenere conto della forte azione propulsiva del Presidente francese Macron, che si è inoltrato nei suoi discorsi nella delineazione di solidi irrobustimenti del lato in qualche misura «federalista» rispetto a quello «sovranista» che ora prevale in seno all’Unione, ma il cui seguito avrebbe bisogno dell’intesa prima di tutto con una Germania attualmente in una per lei inconsueta difficoltà di
governabilità.

oltre le divisioni socio-economiche
È sempre più chiaro che esistono attualmente in seno all’Unione differenze di linea considerevoli tra gli Stati membri favorevoli ad avanzamenti o suscettibili di divenirlo e altri, tra cui quelli del Nord-Europa ma soprattutto quelli dell’area ex-socialista. Se questo spinge alcuni ad auspicare una netta delimitazione nel futuro fra due Europe, altri, forse a ragione, preferiscono in nome di un’unificazione del Continente decisa a cavallo del secolo XX e del XXI, tollerare le attuali differenze e lavorare pazientemente per superare le divisioni. Purché lo si faccia con la decisione necessaria, per esempio non esitando ulteriormente (alcuni segni sembrano ora esserci) ad adottare sanzioni previste dal Trattato nei confronti di quei paesi – Ungheria, gli altri paesi di Visegrad e ora in maniera particolarmente preoccupante la più vasta Polonia – che mostrano di alterare al loro interno, ma con effetti debordanti i loro confini, i fondamentali principi dello stato di diritto, come l’indipendenza della magistratura e della giurisdizione costituzionale e che rifiutano di accettare la loro pur tenue porzione di accoglienza dei migranti.

le diverse politiche sociali e fiscali
Non si tratta però di meri problemi «istituzionali». Bisogna che ci si decida ad avanzare – in questo favoriti dall’uscita dall’Unione, ancora peraltro a mezza strada, della Gran Bretagna – verso politiche sociali valide per tutta l’Unione e verso politiche fiscali comuni, essendo ormai più che palese l’impossibilità e l’ingiustizia di fiscalità così diverse tra gli Stati membri, quali quelle che fra l’altro hanno permesso finora – anche qui qualche segno positivo si sta aprendo – all’Irlanda e allo stesso Lussemburgo già governato da Juncker di offrire possibilità di elusione delle tasse a grandi multinazionali, come quelle agenti nel campo informatico o alla Ryanair o a evasori singoli o societari dei nostri stessi paesi. Potrebbe la ripetuta proposta di un Ministro delle finanze europeo quanto meno per la zona euro, fornire uno strumento per andare in una direzione di contenimento di queste disparità?

Europa Africa
L’autorevolezza della politica dell’Unione verso l’esterno, finora scarsissimamente esistente come politica unitaria, dipende anche dalla capacità dell’Unione di governare le sue tensioni interne. Un esempio clamoroso e tra i più preoccupanti è quello della politica verso il continente africano. Che un compito di aiuto all’Africa da parte dell’Europa sia doveroso e opportuno per la stessa Europa è assolutamente evidente. Ma si sono fatti in questo anno dei veri passi avanti in questa direzione? Da tempo si parla di un cosiddetto Piano Marshall per l’Africa. Ma l’aiuto finanziario ai paesi della fame come quelli del Sahel, che poi generano le massicce migrazioni cui assistiamo ormai da anni, ha veramente decollato? I poco più di tre miliardi di euro promessi e, per quel che si può sapere, non ancora erogati a pro’ di questi paesi – e che certo hanno bisogno di garanzie di corretta spesa, per la quale si son fatte peraltro buone proposte di vigilanza da parte di organismi Onu – non sono certo una misura sufficiente. Meno ancora lo è il puntare primariamente sull’azione contro il fattore, preoccupante ma derivato, di lotta contro il terrorismo che può alimentarsi in quei paesi, preoccupazione che ci pare abbia malamente dominato il recente vertice Europa-Africa di Abidjan. E come vantarsi, in questa situazione, di esser riusciti a contenere il numero degli sbarchi in Italia – a parte lo scandalo dei «campi» in Libia – come fanno il pur ben disposto governo italiano attuale e il suo ministro? In sintesi, un’Europa della solidarietà e della pace non può limitarsi ai problemi interni dell’Unione, ma deve sboccare in una capacità di azione internazionale che avrebbe in Africa, oltre che in Medio Oriente, il suo campo di prova più necessario.

unione monetaria
In presenza di questi e altri problemi, e in attesa fra l’altro della conclusione delle trattative per un nuovo governo tedesco, la Commissione ha elaborato un pacchetto di proposte sul rafforzamento dell’unione monetaria nel quale ha cercato di accontentare un po’ tutti: inserzione del Fiscal Compact nel diritto europeo ma con la fles- sibilità già concessa all’Italia e ad altri paesi, completamento dell’unione bancaria ma con la riduzione dei rischi nei paesi dove le banche hanno troppi titoli di Stato nel loro portafoglio, creazione di fondi di stabilizzazione macro-economica ma con impegni paralleli di convergenza, e altro. Queste, per ora, le prospettive per il nuovo anno, piene anch’esse di luci e di ombre.
Umberto Allegretti
UNIONE EUROPEA
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