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Sprechi e esigenze sociali: nessuno si senta escluso, a cominciare dai professori (accademici)!

di Franco Meloni

In questi tempi si parla molto della necessità di combattere gli sprechi di denaro pubblico. Se ne parla (e poco si fa) soprattutto con riguardo agli sprechi nella pubblica amministrazione con particolare attenzione agli esagerati costi della politica, alle inefficienze organizzative e alla scarsa produttività del personale pubblico, e così via. Giusto! In questa sede vogliamo aggiungere un altro spreco, certamente meno eclatante, ma tuttavia di rilevanti dimensioni soprattutto in termini di mancata e quindi cattiva utilizzazione di importanti risorse pubbliche. Ci riferiamo allo spreco generato dal mancato utilizzo delle ricerche scientifiche per le esigenze del territorio. Quantunque il nostro paese finanzi la ricerca scientifica in misura minore rispetto ai paesi europei ed extraeuropei più evoluti, osserviamo come gli esiti della stessa ricerca non ricadano, se non in minima parte, sul territorio, certamente in misura quantitativamente e qualitativamente non commisurata alle risorse dedicate (ci riferiamo, a ragion veduta, specificamente alla Sardegna). Da cosa dipende questo fatto? Da meccanismi organizzativi (il sistema inadeguato)? Dalla perdurante (e colpevole) incapacità delle università di investire negli uffici liaison office per favorire il trasferimento della ricerca sul territorio? Dalla poca sensibilità dei ricercatori rispetto all’impiego dei risultati dei loro studi? Dalla mancanza dell’applicazione di efficaci metodi di valutazione a 360 gradi? Dal disinteresse dell’opinione pubblica? Dall’incapacità dei politici di ottenere la “resa del conto” da parte dei ricercatori, avendo spesso nei loro confronti una sorta di “rispetto reverenziale”? E così via. Non abbiamo una risposta univoca a questi interrrogativi, anche per il fatto che la situazione attuale è la risultante di diverse cause interconnesse. Per dipanare la matassa occorre analizzare la situazione, possibilmente anche con il contributo degli stessi ricercatori, a cui è richiesta “onestà intellettuale” nell’esercizio di autoanalisi  e spirito critico (autocritico) e almeno un uguale impegno col quale alcuni di loro rivolgono spietate critiche al sistema politico e istituzionale. Per raggiungere lo scopo a noi sembra utile partire dalla comunicazione, facendo riferimento agli obblighi imposti al riguardo in materia di trasferimento e diffusione dei risultati della ricerca scientifica dalla Commissione Europea per il progetti del “VII programma quadro”. L’Unione Europea formula precise indicazioni come risulta dal documento che citiamo:  “La comunicazione e la diffusione dei risultati sono obblighi contrattuali per i partecipanti al programma quadro di ricerca dell’UE. Lo scopo è di stimolare l’innovazione e promuovere la partecipazione alla conoscenza, la consapevolezza di un pubblico più grande, la trasparenza, il dibattito e la formazione. La comunicazione è un elemento chiave di una società basata sulla conoscenza. Perchè la società sia messa in grado di valutare e di accettare il contributo della scienza deve essere informata su di essa. Nel settimo programma quadro la Commissione propone, per la prima volta, che i partecipanti ai progetti, per tutta la durata degli stessi, coinvolgano il pubblico circa gli obiettivi, i mezzi e i risultati dei progetti” (tratto dal documento della Commissione Europea del 19 gennaio 2009). Sono indicazioni che, a nostro avviso, devono essere seguite scrupolosamente non solo per quanto riguarda i progetti finanziati dall’Unione Europea, ma per tutti i progetti da chiunque finanziati (Stato, Regioni, Enti Locali, privati, etc.). Nella circostanza non possiamo non fare riferimento ai progetti finanziati dalla Regione Sardegna con la legge regionale n. 7 del 2007, specificamente a quelli recenti (vedasi la documentazione pubblicata sul sito web della Regione Sarda). Cominciamo proprio da questi progetti, seguendo queste sintetiche proposte: 1) “tradurre” i titoli dei progetti e la sintesi dei contenuti dal linguaggio degli “addetti ai lavori” a quello del comune cittadino, a questo scopo compilando  apposite schede, da pubblicare in un apposito sito web dedicato; 2) dare conto delle attività effettuate “in corso d’opera” e degli esiti delle ricerche con apposite iniziative, per le quali si può fare utile riferimento al manuale pubblicato dalla stessa Commissione Europea.

Ecco è una proposta che crediamo trovi fondamento nelle indicazioni europee nonchè nella stessa legge regionale sulla ricerca. Alla Regione spetta far rispettare tali indicazioni a cui i ricercatori dovrebbero di buon grado attenersi. Altrimenti, in caso contrario, sarebbe lecito e auspicabile che intervenissero i carabinieri!
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Per connessione: http://www.aladinpensiero.it/?p=1799

Auguri ai sardi e a tutti! Sardegna isola di innovazione? Più un auspicio che una realtà. C’è molto da lavorare! E’ comunque Auguri!

BuonBomeluzoNatale

Auguri per le festività

Occhio a questa nuova idea: il Contamination Lab (Clab)

Il Contamination Lab: Si è tanto parlato della nascita delle idee non nei garage, bensì tra i corridoi e alle caffetterie delle Università. Adesso le idee nasceranno nel “contamination lab”. Questo nasce allo scopo di promuovere l’incontro tra giovani laureandi o neolaureati per la creazione di percorsi imprenditoriali attraverso uno spazio dedicato, risorse digitali, accesso a banche dati, networking con professionisti, startupper ed investitori, anche attraverso una piattaforma dedicata (dal progetto Restart, Italia!)
… ne hanno parlato recentemente Alessandro Fusacchia (Mise) e Paolo Fadda (Unica)
Cosa bolle in pentola? Lo scopriremo a breve.

Al di là del bando l’impegno per costruire territori intelligenti

Nonostante la conversione in legge del decreto Crescita 2.0, stante la crisi del governo Monti, il ministro Passera non ritiene opportuno dare seguito all’emanazione del bando per i “territori intelligenti” (lo aveva promesso entro novembre). Questa circostanza costituisce da una parte una delusione, dall’altra deve spingerci ad usare il maggior tempo a disposizione per preparare al meglio il nostro territorio (Cagliari e la sua area vasta) al fine di competere adeguatamente al bando nel momento in cui sarà emanato dal prossimo governo (crediamo non prima degli ultimi mesi del 2013). Tale bando, se vinto, porterà notevoli opportunità al territorio medesimo, in termini di incentivazioni all’innovazione, possibilità di sperimentazioni, alleggerimenti burocratici, etc. Non c’è dunque tempo da perdere. Occorre lavorare con una logica di marketing territoriale, che veda la costruzione di robuste alleanze tra le istituzioni (enti locali, camera di commercio, università), le imprese e i professionisti. In ogni caso non sarà tempo sprecato, considerato quanto si potrà comunque migliorare attraverso la preparazione alla competizione, così come capita in situazioni analoghe (città europee della cultura, sedi di meeting internazionali, etc.). Con tutta evidenza da subito si potranno utilizzare altri strumenti per incentivare la creazione di start up innovative, incubatori d’impresa, contamination lab e quant’altro, anche sul versante dell’innovazione sul tradizionale. Rammentiamo, come esempi, le opportunità di utilizzazione delle risorse europee del progetto Innova.re (che allo stato è gestito dalle due Università sarde e da Sardegna Ricerche, e che dovrebbe coinvolgere anche le Camere di Commercio sarde), ma anche le risorse legate alla possibile istituzione delle “zone franche urbane”.
Aladin, attraverso il suo network (Aladinews, blog aladinpensiero, blog Valorest, blog oivcamcomca, blog aladinews) e non solo, si impegnerà in questa avvincente impresa, che in primo luogo può (deve) creare lavoro soprattutto a vantaggio dei giovani.
Per stare in tema, di seguito riportiamo il video di un’intervista sulle problematiche dell’innovazione fatta da Michela Loi a Chiara Di Guardo, nell’ambito del Progetto Orest della Camera di Commercio di Cagliari. Chiara Di Guardo è docente di Economia dell’innovazione presso l’Università di Cagliari.

Per contrastare il declino dell’università italiana

di Franco Meloni
Una serie di circostanze concomitanti autorizzano a parlare di declino delle università pubbliche italiane, almeno di una parte di esse, precisamente quelle che non riescono ad adeguarsi alle esigenze dei tempi, a sopravvivere e superare la crisi economica che sconvolge l’Italia e l’Europa (in controtendenza, tra gli esempi positivi citiamo i Politecnici). Indichiamo alcune di queste circostanze: 1) la crescente carenze di risorse, che vedono progressivamente diminuire i trasferimenti statali, compensati molto parzialmente dall’autofinanziamento e dai finanziamenti regionali e dei progetti europei; 2) la perdita generalizzata (salvo eccezioni) di consenso della proposta formativa degli atenei italiani, che subiscono la concorrenza delle università straniere, a cui si aggiunge un calo delle immatricolazioni dovuto a un numero crescente di giovani che non vedono credibili sbocchi lavorativi dei corsi; 3) il fallimento delle diverse riforme (ultima e peggiore quella intestata all’ex ministro Gelmini), le quali non hanno migliorato la situazione ma, al contrario, hanno distratto le università rispetto alle fondamentali missioni dell’insegnamento e della ricerca e reso via via sempre più difficoltosa la pratica di nuove iniziative a favore dei territori (trasferimento tecnologico, long lifelearning); il tutto all’insegna di una crescente e opprimente burocratizzazione delle attività universitarie, che fa il paio con quella delle altre pubbliche amministrazioni. Per queste e altre ragioni l’università italiana vive dunque uno dei momenti di maggiore difficoltà degli ultimi decenni. Le crisi, come quella che stiamo vivendo, sono devastanti, ma certamente superabili, attraverso veri e profondi processi di cambiamento in meglio. Le strade da percorrere per salvarsi sono diverse: una, molto importante è senz’altro quella dell’impegno delle università per la «terza missione», come ben ha argomentato Pietro Greco in numerosi interventi, tra i quali ci piace citare quello pubblicato su l’Unità del 12 marzo 2007, che sotto riportiamo, anche come contributo attualissimo al dibattito in corso in diverse sedi. Per quanto ci riguarda la «terza missione» è una prospettiva di cui siamo convinti da tempo e che abbiamo anche praticato con convinzione nel recente passato nell’esercizio di incarichi universitari, peraltro in perfetta linea con le indicazioni dell’Unione Europea.

L’università italiana si salva solo con la «terza missione». L‘università si proponga coma una «nuova agorà»

di Pietro Greco

Gli inglesi da un paio di decenni la chiamano Third Mission, terza missione, o, Third Stream, terzo flusso. Si riferiscono all’università e alla necessità che essa si dia un terzo compito – una terza missione, appunto – insieme ai due canonici della formazione e della ricerca. Questa terza missione è (deve essere) la diffusione fuori dalle sue mura delle conoscenze prodotte. La necessità nasce dal fatto che viviamo, ormai, nella «società della conoscenza» e che lo sviluppo culturale ed economico di ogni comunità a livello locale, nazionale e globale ha bisogno di essere alimentato con continuità da nuove conoscenze. Se non c’è questa immissione continua lo sviluppo dell’intera società ne è frenato, se non bloccato. La domanda sociale è rivolta ai luoghi dove la nuova conoscenza viene prodotta. E poiché le università sono i luoghi primari di formazione e di produzione delle nuove conoscenze, è a loro in primo luogo che «la società della conoscenza» chiede di essere alimentata. La richiesta è che l’università cambi. E dal modello chiuso e statico cui ha aderito nell’Ottocento, per soddisfare i bisogni di formazione di tecnici e di classe dirigente per la società industriale fondata sulla produzione di beni materiali, aderisca a un modello aperto ed evolutivo, per soddisfare i bisogni della società fondata sulla conoscenza e la produzione di beni immateriali. Per un certo tempo questa domanda sociale è stata interpretata in termini molto riduttivi, di semplice «trasferimento delle conoscenze» dalle università alle imprese. In Gran Bretagna, per esempio, il governo favorisce da tempo la Terza Missione delle sue università proprio attraverso una serie di iniziative di «trasferimento delle conoscenze» che includono lo Higher Education Innovation Fund, la Higher Education Reachout to Business and the Community Initiative, lo University Challenge, lo Science Enterprise Challenge. Negli Stati Uniti da almeno un quarto di secolo esistono leggi, come il Bayh-Dole Act, che stimolano l’università non solo a trasferire conoscenze alle imprese, ma – attraverso la valorizzazione e protezione della proprietà intellettuale – a diventare essa stessa impresa: a interpretare se stessa come entrepreneurial university, come università imprenditrice. In Italia non esiste l’università imprenditrice, ma dal novembre 2002 esiste un «Network per la valorizzazione della ricerca universitaria» che coordina decine di atenei di tutto il paese nel tentativo di trasferire conoscenza alle nostre imprese, così poco vocate alla ricerca e così poco consapevoli dell’era in cui siamo entrati. Ebbene, questa attività da sola non basta per entrare nella «società della conoscenza». È troppo riduttiva. È troppo economicista. Lo sostiene il Russell Group, un centro che coordina i due terzi delle università del Regno Unito, sulla base di una documentata indagine. Se il rapporto tra università e società non viene interpretato in una prospettiva molto più ampia e olistica, non solo l’ingresso nell’«era della conoscenza» si allontana, ma persino il trasferimento strumentale di conoscenze alle imprese ne viene minato e perde efficacia. Insomma, sostiene il Russell Group, per entrare nella «società della conoscenza» occorre un dialogo fitto e a tutto campo che promuova uno sviluppo complessivo – culturale ed economico – dell’intera società. In cosa deve consistere, questo dialogo? Dovessimo riassumerlo in una frase, potremmo dire: nella costruzione della cittadinanza scientifica. Che significa maggiore consapevolezza dei cittadini intorno ai temi della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico e maggiore partecipazione alle scelte tecniche e scientifiche, ivi incluse quelle ambientali e quelle «eticamente sensibili». Ma significa anche maggiore democrazia economica. Se i saperi sono ormai la leva principale per la crescita economica, costruire la cittadinanza scientifica significa (anche) fare in modo che la conoscenza non diventi un fattore di nuova esclusione sociale, ma un fattore attivo di inclusione sociale. In pratica significa che nell’aprirsi l’università si proponga coma una «nuova agorà», una delle piazze della democrazia partecipativa (dove i cittadini si riuniscono per documentarsi, discutere e decidere) e della democrazia economica (dove non solo le grandi imprese attingono conoscenza per l’innovazione, ma i cittadini tutti acquisiscono i saperi necessari per il loro benessere, per la loro integrazione sociale, persino per una imprenditorialità dal basso). Questo dialogo fitto e a tutto campo tra università e società non è un’aspirazione astratta. E neppure futuribile. Sta andando avanti, sia pure per prova ed errore. E ha assunto aspetti concreti non solo in Gran Bretagna o negli Usa. In Danimarca la Terza Missione dell’università è stata stabilita per legge. In Francia ci sono importanti iniziative sulla comunicazione pubblica della scienza. E anche nei paesi scientificamente emergenti come Cina, India e, di recente, Sud Africa molto impegno e molte risorse sono dedicate alla diffusione delle conoscenze e al rapporto tra «scienza e società». Un po’ ovunque il tentativo consiste nel fatto che le università cercando di aprirsi alla società – senza rinunciare al compito canonico dell’alta formazione e della ricerca scientifica – superando l’ambito, riduttivo, del trasferimento di conoscenze per l’innovazione tecnologica e costituendo «reti sociali» con associazioni, centri culturali, enti locali, cittadini, lavoratori, imprese (piccole, medie e grandi). Nel fare tutto questo da un lato promuovono la nascita di un’intera costellazione di nuovi attori culturali, che si interfacciano con la società, e dall’altra sviluppano nuova conoscenza intorno ai rapporti scienza e società, con appositi centri interdisciplinari di ricerca. In Italia c’è una domanda sociale ridotta di conoscenza. Ma c’è anche un’offerta insufficiente. Le università non sono ancora attrezzate per la Terza Missione. Occorre farlo. Perché l’università aperta è uno dei passaggi obbligati per entrare nella società della conoscenza. E per costruire una piena cittadinanza scientifica.

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Documentazione pertinente: report della Crui dell’aprile 2012

Il Sindaco di Cagliari s’impegna a mettere a disposizione le strutture per gli incubatori d’imprese innovative

di Aladin

Nell’intervista rilasciata dal sindaco di Cagliari Massimo Zedda a Videolina, andata in onda ieri giovedì 6 dicembre, risultano dichiarazioni importanti del primo cittadino riguardo alle iniziative che assumerà a breve il Comune per favorire le start-up innovative. A una precisa domanda di Roberto Paracchini, giornalista de La Nuova Sardegna, il Sindaco ha affermato che il Comune favorirà le start-up innovative, anche mettendo a disposizioni appositi spazi e strutture per gli “incubatori d’impresa“. Rimarchiamo la rilevanza di tale impegno, che, forse per distrazione o poca sensibilità alla tematica dell’innovazione, non è stato riportato nel resoconto dell’intervista apparso oggi su L’Unione Sarda. Ne sapremo qualcosa di più ne prossimi giorni e comunque speriamo almeno in occasione del Convegno organizzato da Sardegna Ricerche e dalla RAS mercoledì 12 p.v.

La Sardegna si propone come Territorio Intelligente (ecosistema favorevole ai processi innovativi), anche in previsione di un prossimo bando del Mise

Intanto la Regione organizza un Convegno “Sardegna isola dell’innovazione. Dall’idea all’impresa”. Ecco il programma diramato da Sardegna Ricerche. Come abbiamo segnalato in altre occasioni siamo in attesa di un apposito bando da emanarsi a cura del Ministero dello Sviluppo che prevederà l’attribuzione della qualità di “territorio intelligente” a quegli ecosistemi innovativi in grado di proporsi come esempio e traino dei processi innovativi e, conseguentemente, attrattori  di investimenti in persone e attività produttive. Connessi a questa attribuzione di qualità sono previste sperimentazioni e incentivazioni di varia natura (fiscale,  promozionale, semplificazione burocratica, etc). Le risorse a disposizione per questa operazione sarebbero consistenti, ma tali da premiare solo pochi territori italiani (si parla di 4 o 5). Non sappiamo poi se intere regioni possano proporsi come “territorio intelligente” o porzioni territoriali più ridotte. Certo è che i territori che vorranno candidarsi dovranno porsi in competizione per cogliere tale opportunità. Senza esagerare, ma solo per rendere chiaro il concetto, si tratta di una sorta di candidatura alla sede dei giochi olimpici. I territori che si candidano devono già possedere una serie di attributi-condizioni, quali ad esempio l’esistenza di imprese innovative (sopratutto start up innovative), l’esistenza di consistenti attività di ricerca e di formazione, l’esistenza di infrastrutture che facilitino le attività formative e di ricerca (dalla banda larga alle condizioni di vivibilità dei territori) e, aggiungiamo, devono essere in grado di  adeguarsi rapidamente rispetto a determinati standard. L’iniziativa seminariale che la Regione propone (e di cui si da dettagliata notizia nel proseguo), coglie opportunisticamente il momento (lo diciamo in senso positivo,  a merito degli organizzatori), ma se vorrà essere produttiva dovrà porsi esplicitamente come occasione per mettere le basi a operazioni più consistenti e partecipate. La cartina di tornasole potrebbe  essere costituita proprio dal fatto che si trovino a partire dal Convegno accordi per le iniziative future a partire dall’individuazione di precise modalità organizzative per la partecipazione al bando di cui si è detto. Al riguardo è fondamentale che si costituisca un tavolo operativo tra le istituzioni (la Regione e gli Enti locali e, tra questi ultimi, sopratutto le amministrazioni di Cagliari e delle altre città più grandi), le Camere di Commercio (e la loro Unione regionale), le Università e gli altri Centri di ricerca e le Associazioni di categoria, soprattutto con riferimento alle imprese innovative. Le quali ultime sono nella quasi totalità piccole e spesso micro imprese, a volte non rappresentate dall’associazionismo tradizionale, cosa che consiglia specifiche forme di tutela della rappresentanza delle stesse. Ovviamente la partecipazione deve essere massimamente estesa e perciò andare oltre rispetto alle stesse organizzazioni citate, coinvolgendo i singoli, siano essi studenti o semplici cittadini che hanno voglia e intelligenza da mettere a fattor comune a beneficio di tutta la comunità. Occorre parlarne, con il massimo sforzo di chiarezza, tenendo conto dei tempi brevi a disposizione, che richiedono concretezza, con un supplemento di impegno e dedizione al compito da parte degli uomini e delle donne  che rappresentano le Istituzioni e le Imprese.

QUANDO I SARDI MORIVANO PER LA LIBERTA’

moti di Palabanda 1812-1012

29 ottobre 2012, ore 10 – 13, presso l’ ORTO BOTANICO in Cagliari (già orti di Palabanda e luogo di riunione dei patrioti sardi dal 1794 al 1812)

200 ANNI DEI MARTIRI DI PALABANDA

QUANDO I SARDI MORIVANO PER LA LIBERTA’

Il lavoro prima di tutto! Per questa finalità abbiamo bisogno come il pane di politici onesti e capaci… la buona intendenza seguirà!

Bomeluzo Aladino 2

di Aladin

Giustamente il diritto al lavoro si tutela a partire dal lavoro esistente. Ma non si confonda la sacrosanta difesa del lavoro con la difesa di aziende obsolete e di imprenditori incapaci di innovare e competere nel mercato. Non è drammatico che chiudano attività economiche, è drammatico che non ne sorgano di nuove in maggior misura e di adeguata consistenza. Purtroppo allo stato con ci sembra ci sia sufficiente impegno per la difesa dei posti di lavoro che meritano di permanere e soprattutto lamentiamo che non ci siano adeguati investimenti per creare lavoro.

Scrive Marco Meloni, leader studentesco dell’università di Cagliari, nella sua pagina fb: “Ma se vi dicessi che sono convinto che se avessimo a disposizione 250 milioni di euro l’anno riterrei un’investimento più sensato, piuttosto che regalarli ad una multinazionale il quale progetto mi sembra poco sostenibile sia a livello economico e sia a livello ambientale, darli per il primo anno a 250 cooperative di 4 o 5 di quelli stessi operai, un milione ciascuna, perchè realizzino dei loro progetti d’impresa, se vi dicessi che per il secondo anno darei un milione di euro a 250 progetti innovativi di giovani sardi disoccupati. Mi riterreste una brutta persona?

A sostegno dei lavoratori e delle loro famiglie, sempre e senza condizioni, ma a volte chi più tuona e sbandiera uniche soluzioni è proprio chi quelle crisi economiche, sociali ed umane poteva evitarle decenni fa”.
Siamo  totalmente d’accordo con Marco e ci chiediamo quando in Italia e in Sardegna si cambierà registro impostando e praticando le politiche per il lavoro che ci servono come il pane. In America la scelta del nuovo Presidente, Obama (come ci auguriamo) o Romney, dipenderà da quanto uno dei due riuscirà a convincere la maggioranza degli americani sul fatto che nei prossimi anni verrà fatta un’efficace politica di sviluppo con la creazione di milioni di posti di lavoro. In Italia invece questo Governo persegue una politica di risanamento dei conti pubblici a discapito della crescita e della creazione di nuove opportunità di lavoro. Così non si può certo andare avanti. La Politica soprattutto, quella vera, rappresentata da politici onesti e capaci (e ce ne sono, specie tra i giovani)  faccia la sua parte! E che i tecnici tornino a fare il loro prezioso lavoro all’interno dell’ambito loro proprio di quella che possiamo definire sinteticamente (come abbiamo fatto in altro precedente intervento)  ”intendenza”.
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SSRL. Il Segretariato della Presidenza della Repubblica sollecita la risposta del Ministero della giustizia

Lett segreteria Capo stato Scan 121970002

Ci scrive il direttore dell’Ufficio per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica (12 luglio 2012 Uag.11.3 N. 646/2012).

Pubblica Amministrazione: Pietro Micheli all’Università

o Il prof. Alessandro Spano comunica che Pietro Micheli (nella foto), docente del Centre for Business Performance alla Cranfield School of Management (UK),

terrà i seguenti seminari presso l’Aula magna della Facoltà di Economia dell’Università di Cagliari:

La riforma della pubblica amministrazione: l’eterno ritorno

ESCHER galleria d'immagini

di Franco Meloni

Il nuovo presidente della Confindustria Giorgio Squinzi, nella sua relazione all’assemblea generale dell’associazione tenutasi a Roma il 24 maggio, tra le cose che ha detto, ha invocato la riforma della pubblica amministrazione (“madre di tutte le riforme”) e la semplificazione normativa in tempi rapidi, argomentando che tale intervento riformatore comporterebbe una diminuzione del deficit, attraverso i tagli alla spesa pubblica per ridurre la pressione fiscale,  sostenere i consumi e il credito alle imprese: tutte condizioni per la ripresa e la crescita. Come dargli torto specie sull’importanza decisiva della pubblica amministrazione, quando l’operare della stessa è efficiente ed efficace, in grado di costare di meno e fornire servizi adeguati?
Dalle parole di Squinzi sembra però che la pubblica amministrazione, o meglio, le pubbliche amministrazioni, siano organismi immobili sostanzialmente uguali a se stessi da secoli. E invece non è così. Infatti: come non prendere atto che la pubblica amministrazione è complessivamente un cantiere di riforme da sempre? Se vogliamo limitarci alle più importanti riforme, diciamo da almeno ventidue anni (leggi 142/90 e 241/90). E mica si è trattato di interventi di poco conto, se solo pensiamo alle iniziali leggi di riforma di Amato-Cassese (il mitico decreto legislativo 29 del 1993, poi novellato nel DLvo 165/2001), quando il personale della PA fu “privatizzato” e le PA riorganizzate nell’inseguimento degli standard delle migliori amministrazioni pubbliche europee. O agli interventi del Ministro Bassanini. Ma, se pensiamo a tempi più recenti, dobbiamo parlare degli interventi del Ministro Brunetta (spesso confusi e contradditori, ma c’era anche del buono, come la tenace proposizione della trasparenza) fino a quelli attuali di Monti e Patroni Griffi. Ma tutto ciò evidentemente non è servito a molto, se un importante attore del sistema paese come il presidente della Confindustria, reclama oggi la necessità della riforma della PA, quasi nulla fosse finora accaduto. Ha ragione Gianfranco Rebora che in un recente intervento sul suo blog (Oltre la crisi fiscale dello Stato), da noi ripreso come importante contributo al dibattito su come riformare le PA oggi, cita se stesso con riferimento a uno scritto del 1999 (Un decennio di riforme… Edizioni Guerini, Milano), descrivendo una situazione tuttora riproponibile:
“Un ipotetico profondo conoscitore delle leggi e dei regolamenti sull’amministrazione pubblica, che avesse fermato il proprio aggiornamento agli inizi del 1990, si troverebbe 10 anni dopo a fronteggiare una realtà completamente nuova e modificata. Tuttavia, se ci si pone da un diverso punto di vista, quello del cittadino non particolarmente informato che si vale delle specifiche prestazioni offerte dalle amministrazioni pubbliche, sia centrali che locali, la percezione del mutamento potrebbe essere molto più contenuta e, forse, quasi inesistente”.
Ecco, Giorgio Squinzi, appare proprio come il “cittadino non particolarmente informato” di Rebora. Al riguardo, forse il cittadino Squinzi qualche o molte responsabilità ce le ha proprio, ma indubbiamente interpreta il comune sentire del cittadino medio (che lui non è). Ne consegue che non possiamo fermarci alle possibili critiche alla Confindustria: ma dove eravate finora? Laddove avete precise responsabilità di gestione di pubbliche amministrazioni (come le Camere di Commercio) non sembra riusciate a dare convincenti esempi di innovazione organizzativa, etc. Ma questo atteggiamento sarebbe in fondo sterile e poco produttivo per l’effettivo cambiamento.

E, allora: che fare? Forse occorre ripensare la Pubblica Amministrazione in modo profondamente diverso da quanto abbiamo saputo fare fino ad ora. Per esempio ridiscutendo le missioni delle attuali pubbliche amministrazioni, avendo il coraggio di proporre qualcosa di nuovo che sia adeguato alle esigenze dei cittadini e delle imprese. Il citato contributo di Rebora, insieme a tanti altri, alcuni dei quali segnaleremo su questo sito, costituisce un valido punto di partenza. Lo abbiamo già detto e in questa direzione ci stiamo appunto muovendo.

Franco Meloni Paoletto Fanni e altri 62-63_2

La finanza d’impresa per l’innovazione. Se il cavallo non vuole bere…

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di Franco Meloni

E’ molto conosciuta la metafora “l’acqua c’è ma il cavallo non beve” utilizzata dall’economista Keynes per sostenere che come non si può costringere un cavallo che non ha sete a bere (anche avendone necessità), così non si può, aumentando la liquidità disponibile, indurre le imprese ad investire. Bene, la metafora potrebbe applicarsi in modo pertinente alle imprese start up, perlomeno a quelle sarde, le quali nonostante necessitino di credito (l’acqua) e abbiano a disposizione interessanti strumenti di finanziamento, come il venture capital ed altre tipologie affini (l’abbeveratorio ben approvvigionato), non ne approffittano. Almeno così ci è parso di capire dall’interessante tavola rotonda (“La finanza d’impresa per l’innovazione”) organizzata oggi (16 maggio) dalla Confindustria Sardegna Meridionale, precisamente promossa dal suo Gruppo di lavoro “Innovazione e ricerca” coordinato da Mario Mariani. Infatti i rappresentanti delle società di venture capital (VC) operanti in Sardegna hanno dato conto del fatto che allo stato sono disponibili considerevoli risorse finanziarie  ben superiori rispetto a quante ne richiedano (e ne ottengano) le imprese innovative. Certo, i famosi cavalli (si tratta soprattutto di puledri,  ancor più bisognosi di acqua dei cavalli maturi) non sono poi così numerosi, ma tuttavia in gran parte recalcitranti (o distratti e disinformati). Vero è che fa ben sperare in un’inversione di tendenza la straordinaria partecipazione di imprenditori e di operatori che oggi affollavano il salone confindustriale di viale Colombo e, ancor più, le prenotazioni di colloqui be to be da parte di una ventina di imprese start up sarde (o intenzionate a investire in Sardegna) con i rappresentanti delle società di VC, al fine di verificare le concrete opportunità di finanziamenti. Tuttavia, anche riconoscendo questi segnali positivi, la situazione non è affatto buona. Al fine di migliorarla, individuando possibili soluzioni, occorre fare uno sforzo di analisi, in modo aperto e senza infingimenti. Al riguardo bisogna riconoscere che un’apprezzabile riflessione l’ha fatta Antonio Tilocca, presidente della Sfirs, il quale ha riconosciuto un’insufficiente iniziativa della parte pubblica. E non in quanto si faccia poco, ma perchè quello che si fa lo si fa a ranghi sparsi, senza un’adeguata collaborazione “a sistema” degli attori pubblici e anche privati che operano nel settore. Da quanto ci è stato raccontato oggi,  ogni giovane (universitario e non solo) rappresenta una potenziale start up che può concretizzarsi. Perchè accada occorre fare spazio e dare ossigeno a questi nuovi imprenditori, aiutandoli a crescere, mettendo anche in conto i possibili e in certa misura inevitabili fallimenti (ma è un costo che si può pagare, cercando comunque di salvaguardare le persone). Se si fa una politica lungimirante i risultati arrivano e arriveranno, come dimostrano non solo gli stracitati americani, ma anche i numerosi casi di successo italiani, spesso riconosciuti più all’estero che in casa nostra. Un segnale positivo è stato anche individuato nella task force costituita dal ministro Corrado Passera (MISE) per favorire la nascita e lo sviluppo delle start up innovative in Italia. Dunque, lode a Confindustria per l’iniziativa, auspicando che da oggi si cominci a costruire un’alleanza tra gli operatori pubblici (Regione, Enti locali, Camere di Commercio, Università, Sfirs, etc.) e privati (Imprese, Associazioni di categoria, Confidi, etc) i quali tutti possono e debbono concordare azioni positive “a sistema” per il sostegno e la crescita delle imprese innovative.

 

Nella complessità della situazione odierna cogliere le opportunità per costituire legami forti tra le strutture di ricerca e le imprese operanti nel territorio

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di Franco Nurzia*

Nell’introdurre i lavori di questo seminario [28 aprile 2012] concordo con l’atteggiamento degli organizzatori che non hanno voluto dare ad esso un eccessivo risalto. Si sta infatti attraversando un momento di riflessione e discussione che, a mio parere, deve condurre ad una migliore focalizzazione dei rapporti tra il sistema della ricerca e quello delle imprese.

Anche se la mia posizione riflette il punto di vista di uno che ha svolto per più di quarant’anni ricerca nel settore dell’Ingegneria Industriale ed in particolare di quella Meccanica, debbo dire che raramente ho percepito situazioni di difficoltà simili a quelle attuali. Sarà perché i ridimensionamenti verificatesi nella grande industria hanno comportato anche  una progressiva contrazione delle attività di ricerca, sarà perché gli indirizzi che sta prendendo il sistema universitario penalizzeranno sedi come la nostra, ma  certo è che la situazione, fatte salve le debite eccezioni, non favorisce un atteggiamento ottimista.

(nella foto, di repertorio, Franco Nurzia e Franco Meloni, fino al 2009 ai vertici dell’area Innovazione dell’Ateneo di Cagliari, nella rispettiva veste di pro-rettore all’innovazione e dirigente della Dirinnova
Rivolgendo l’attenzione al tema che ci riunisce, rapporti tra ricerca e imprese, osserviamo che non a caso il seminario è promosso dalla Camera di Commercio,  cioè da un Ente a forte valenza territoriale e sensibile, almeno in linea di principio, alle interazioni tra il sistema della ricerca e le realtà produttive operanti nel territorio. Si pongono allora  due necessari interrogativi, e cioè che cosa ha fatto il sistema della ricerca per il sistema delle imprese, ma anche che cosa ha chiesto il mondo delle imprese al sistema della ricerca.

Non v’è dubbio che molta della ricerca sviluppata nel passato, per molteplici e comprensibili  ragioni,  sulle quali in questo momento non intendo addentrarmi, abbia avuto poca attinenza con il territorio;  tuttavia oggi si potrebbe assistere ad un ulteriore impoverimento dei rapporti poichè potrebbe anche accadere che docenti di  discipline che possono legarsi  a problematiche territoriali,  per ragioni connesse  alle modalità di valutazione della qualità della ricerca basate su indicatori bibliometrici, siano indotti ad occuparsi di tematiche con minori ricadute territoriali ma  presentanti un maggior interesse per la letteratura scientifica  internazionale. Potrebbe quindi verificarsi per alcuni, pur importanti, settori un ulteriore allontanamento dell’attenzione dell’Università verso il mondo produttivo  regionale  con l’indebolimento del ruolo essenziale che potrebbe e dovrebbe svolgere l’Università  per  lo sviluppo del territorio.

A queste considerazioni si aggiunga anche la constatazione che molti dei nostri migliori allievi trovano occupazione fuori dalla Sardegna, spesso all’estero  ed in posizioni di prestigio. Orbene se da un lato questo testimonia la validità della formazione impartita dal nostro Ateneo, dall’altro pone in luce sia la crisi occupazionale sia lo scarso collegamento tra i due ambienti.

Ed infatti anche il secondo quesito su quanto il mondo delle imprese o in generale il territorio conosca,  interpelli e stimoli la “propria “  Università  trova limitate  risposte. Sovente non si conoscono le reali competenze, scientifiche e formative, presenti nell’Università e si incontrano  difficoltà di dialogo, talvolta per timore di affrontare costi elevati, altre volte  per definire gli obbiettivi e  armonizzare gli  interessi.

A mio avviso non si possono neppure ritenere portatrici di notevoli ricadute sul sistema delle imprese i progetti di ricerca condotti in  collaborazione tra Università, Centri di Ricerca  ed imprese su tematiche spesso importanti e di ampio respiro. In realtà in molti casi tali attività spesso si risolvono con gli apporti separati dei diversi partecipanti attraverso le competenze disponibili, con vantaggi per ciascuno, ma in generale senza determinare  una interazione più profonda  tra i due sistemi che possa prolungarsi nel tempo con i relativi coinvolgimenti ed arricchimenti.

Il tema che ci riunisce è piuttosto complesso e la nostra discussione deve cercare di dare un contributo per individuare possibili percorsi per avviare collaborazioni efficaci. Vorrei però fare due  ulteriori considerazioni.

La prima riguarda la possibilità di svolgere attività di ricerca in proprio da parte delle imprese.

Mentre la grande imprese possiede le risorse  per investire in tale attività e comunque è in grado di far svolgere quegli studi presso qualunque Centro di Ricerca od Università  ovunque esso sia, non altrettanto accade per la piccola impresa, spesso impossibilitata economicamente ad indirizzare risorse umane e materiali in attività di studio e ricerca.

A questo si aggiunga che non ci si improvvisa ricercatori. E’ una questione di metodo e di forma mentis che chi opera nella ricerca acquisisce nel tempo, imparando a convivere, se ci si riferisce ad esempio ai settori tecnologici, con un continuo susseguirsi di prove di laboratorio, analisi teoriche  e messa in discussione delle ipotesi di lavoro sino al conseguimento di un risultato accettabile. E’ evidente allora che in contesti come quello a noi vicino la ricerca può essere fatta solo dall’Università o Centri di Ricerca attrezzati per le competenze presenti e per la possibilità di dedicare ad essa le necessarie energie. E’ quindi preferibile, nell’interesse di un reale coinvolgimento del sistema della ricerca nelle problematiche di sviluppo delle imprese, che si scelgano  forme di finanziamento dell’ attività di ricerca a strutture dedicate, ma ponendo il vincolo di operare su indicazione o in stretta connessione con le imprese per il raggiungimento di risultati utilizzabili dalle stesse. In altri termini,  da un lato  è necessario evitare che per le imprese il finanziamento per la ricerca divenga una delle tante poste di entrata e dall’altro è importante vincolare il finanziamento alle strutture di ricerca al raggiungimento ( anche in termini temporali) di obbiettivi concretamente valutabili  da parte delle imprese. Una ipotesi interessante, peraltro già ventilata in sede di politica regionale, è quella di istituire dei  voucher da conferirsi  alle imprese per una loro utilizzazione presso strutture di ricerca.

La seconda riguarda le tematiche di ricerca e il contesto in cui vengono svolte . Anche se giustamente l’attività di ricerca viene legata ad un discorso di innovazione, è necessario tener presente che molte delle attività vanno indirizzate non tanto  ad innovazioni di prodotto quanto piuttosto ad innovazioni di processo, includendo in tali termini, per brevità, anche tutti gli altri aspetti che concorrono  a rendere più competitiva l’azienda. Orbene, limitando le osservazioni agli aspetti tecnologici, in molte piccole realtà si registra anche un deficit di conoscenze per esempio nell’impiego di nuovi materiali e di processi lavorativi. E’ necessario pertanto agire  perché possano compiersi quelle  operazioni di trasferimento tecnologico indispensabili per far crescere le acquisizioni tecnologiche dell’impresa e quindi favorirne lo sviluppo. E’ evidente che tale attività precede quella di ricerca in senso stretto ma costituisce  un passaggio ineludibile e può essere messa in conto nel quadro delle attività di formazione di elevato profilo.

Credo che vi siano molti elementi per poter avviare un discussione che mi auguro proficua.

Indubbiamente in questo momento vi sono spazi ed opportunità di interventi per Enti territoriali per incentivare e orientare  l’attività di ricerca. Paradossalmente la complessità della situazione che ho cercato di rappresentare potrebbe costituire una occasione da non perdere per costituire legami forti tra le strutture di ricerca e le imprese operanti nel territorio.

E’ altresì evidente che può essere necessario superare le forme tradizionali di rapporti tra i due sistemi e può essere utile utilizzare forme nuove quali possono aversi attraverso i centri di competenza tecnologica, gli incubatori per imprese innovative , le fondazioni etc., cioè attraverso strutture che possano da un lato essere interlocutori unici  ma, allo stesso tempo , essere capaci di svolgere un ruolo di complessa “mediazione” tra i  diversi interlocutori.

Gli strumenti possono dunque essere molteplici e possono essere  potenzialmente tutti efficaci ovvero infruttuosi.

I risultati sono legati alle risorse disponibili, sia quelle materiali sia quelle umane. Anzi vorrei sottolineare proprio l’importanza di queste ultime, poiché è ben noto che chi si impegna sulle frontiere citate a fronte di una attività svolta con dedizione ed impegno di tempo ed energie avrà modeste soddisfazioni economiche ma, probabilmente, elevate soddisfazioni morali.

* Introduzione ai lavori del Seminario sul rapporto tra ricerca e imprese, organizzato dalla Camera di Commercio di Cagliari il 28 aprile 2012 (Fiera della Sardegna)

Per connessione: intervento di Franco Nurzia alla VII giornata dell’Economia, organizzata dalla Camera di Commercio di Cagliari 9 maggio 2008

PROPOSTE PER CAGLIARI CITTA’ SARDA ED EUROPEA

bandiera sardaeuropa

PROPOSTE OPERATIVE PER UNA POLITICA EUROPEISTA DELLA CITTA’ DI  CAGLIARI

IL QUADRO GENERALE

Le scelte operative del Comune di Cagliari per un maggiore utilizzo delle opportunità offerte dai programmi e progetti europei si inquadrano in una “politica europeista” del Comune medesimo.