Chiesa, papa Francesco diceva: “Todos, todos”: i confini dell’umanità e della Chiesa coincidono
ci troviamo di fronte a due svelamenti, non veramente nuovi, ambedue con timbro americano.
Da Trump viene la rivelazione della trascendenza, ovvero del dominio del denaro come vero sovrano.
Dal papa americano viene la rivelazione della immanenza, ovvero della umanizzazione di Dio, così spinta fino all’annientamento di sé, da fargli rischiare di essere dagli uomini smarrito.
Trump lavora solo per il denaro. Va in giro per il mondo per fare soldi. Mette e toglie dazi, cioè concede o sottrae soldi. Preferisce fare affari e non la guerra, ma si serve della guerra per fare affari, e la chiama pace. Alla Russia mette il tappeto rosso, per farle fare quello che dice lui, ma poi le mette le sanzioni, il diciannovesimo pacchetto fino all’ottobre scorso, per mandarla in rovina, come se quelli già messi dalla cosiddetta Europa di Ursula von der Leyen non bastassero a far capire che non servono a niente. Perfino Gaza la vorrebbe libera dal genocidio e da Hamas, ma per riempirla di casinò e di profitti del regime, e sui suoi sudditi invece di far “piovere la giustizia” fa piovere oltraggio, nella trascrizione fatta dalla Intelligenza Artificiale della invettiva di Cambronne, e mostra tutta la violenza americana. E naturalmente fa scuola: secondo l’OXFAM un’imposta del 5% sui grandi patrimoni potrebbe affrancare dalla povertà fino a 2 miliardi di persone, mentre da una ridda di cifre si ha che l’1 per cento della popolazione più ricca nel mondo acquisisce fino all’82 per cento della ricchezza prodotta in un anno, mentre fornisce solo 4 centesimi per ogni dollaro di gettito fiscale. Sicché perfino qualche centinaio di super ricchi si sono vergognati di questo divario e nel settembre 2023 rivolsero un appello al G20 riunitosi in India per chiedere che si promuovessero misure coraggiose e lungimiranti di tassazione delle grandi ricchezze: ma la proposta è rimasta inascoltata, anzi il cavallo di battaglia dei governi per vincere le elezioni sono la detassazione, la flat tax e simili, mentre in Italia alla sola idea di tassare le banche si è scatenato l’inferno. Insomma il capitalismo allo stato puro.
Il Papa americano lavora per i poveri, e dice quali sono “le cose nuove”, per fare le quali ha preso perfino il nome. Ma le cose nuove di cui parla non sono quelle dell’altro Leone, che Charlie Chaplin ha filmato, della prima rivoluzione industriale e della nuova tecnologia che ci usa invece di essere usata, da cui Heidegger ha lasciato detto che “solo un Dio ci può salvare”; le “cose nuove” sono la terra, la casa e il lavoro, che ai poveri sono negati. Non glieli dà infatti l’attuale società dello scarto, come la chiamava papa Francesco; ma papa Leone non chiede, connivente, che vengano da Dio, bensì è ammirato dei poveri, che lottano per essi, anche se vengono dalle case occupate e quindi sono incriminati dalla signora Meloni, e dice di voler lottare con loro: “Ci sto!”, “sono con voi.”. E quasi per scusarsi con quanti pensano che questo non è il mestiere della Chiesa (ma al cardinale Burke basta la messa in latino) dice che “sono diritti sacri”: in realtà sono diritti umani universali, e proprio per questo sono sacri, cioè nel cuore di Dio. E qui sta il rovesciamento, perché vuol dire guardare a questi diritti negati non dal trono di Dio, né dal trono di tutti i potenti, ma dalla periferia, magari dalle favelas, dove non si era abituati a pensare che Dio fosse di casa. Ma se adesso lì Dio c’è, e lì il Papa con i movimenti popolari lo va a scovare, vuol dire che lì era nascosto. E la cosa nuova, forse la missione di un Papa agostiniano, è di far trovare, a un mondo che l’ha perduto, il “Deus absconditus”, che era l’assillo e il tema di sant’Agostino: “veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore”, lo proclamava, prima di lui, il profeta Isaia.
Ma se Dio è nascosto, va cercato nel suo nascondiglio, e questo è nella carne dell’uomo: “mi hai preparato un corpo”, dice la lettera agli Ebrei; questo è detto del Figlio, con cui i membri della Chiesa fanno un unico corpo; ma il Padre raccoglie in sé tutti i figli, per cui fa corpo con l’umanità tutta intera, si “svuota” scambiandosi con loro, ne assume il dolore, e in forza di questo gli uomini sono una cosa sola. Nel Talmud c’è una curiosa esegesi rabbinica sul fratricidio di Caino: dice il Rabbi Nathan che «chi fa perire un solo uomo è come se facesse perire il mondo intero. Ciò vale anche riguardo a Caino che uccise Abele, secondo quanto è scritto: “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”». Secondo il rabbino Nathan benché fosse versato il sangue di uno solo, l’ebraico usa questa parola al plurale (damaym), ciò che vorrebbe dire che “il sangue dei figli di Abele, quello dei suoi nipoti e di tutti i discendenti che sarebbero nati da lui sino alla fine dei tempi, gridavano” davanti a Dio.
Dal canto suo papa Leone non ammette alcuna esclusione, e ha detto ai Movimenti popolari che l’umanità “non è riuscita ad invertire la rotta sulla drammatica esclusione di milioni di persone che rimangono ai margini. Questo è un punto centrale nel dibattito sulle ‘cose nuove’”; e nell’Enciclica sui poveri, “Dilexit te”, ha scritto che “anche teologicamente si può parlare di un’opzione preferenziale per i poveri da parte di Dio, un’espressione nata nel contesto del continente latino-americano e in particolare nell’Assemblea di Puebla, ma che è stata ben integrata nel successivo magistero della Chiesa”. Lo svelamento è che non c’è alcuno che può essere considerato escluso, nemmeno dal seno della Chiesa (papa Francesco diceva: “Todos, todos”): i confini dell’umanità e della Chiesa coincidono. Se la Chiesa, da Francesco a papa Leone, denuncia che c’è una “drammatica esclusione di milioni di persone che rimangono ai margini”, come si può pensare che la maggior parte siano esclusi proprio dalla Chiesa, fuori della quale “non c’è salvezza” e nella Chiesa non si entra se non “per il battesimo come per una porta”, come ancora diceva il Concilio Vaticano II? Infatti non lo pensano più, né papa Francesco che lavava i piedi ai musulmani, né papa Leone che dice questa cosa nuova. Sarebbe paradossale che Dio preferisca i poveri su tutti, ma solo a patto che siano entrati nella Chiesa visibile, quando poi, in un modo o nell’altro nella “società dello scarto” tutti sono e siamo poveri, tutti esclusi, tutti alienati, tutti deprivati come soggetti, dominati dalle cose, e gli uni agli altri nemici, gli Ucraini che perseguitano i Russi e i Russi che invadono l’Ucraina, gli Israeliani che occupano una terra che consideravano come una “res nullius”, e i Palestinesi che la rivendicano come loro. Il mondo accetta queste esclusioni, e le lascia in balia delle guerre, annoverando gli esclusi come nemici; la Chiesa invece rigetta queste esclusioni, sostiene che i nemici sono fratelli, che la guerra non finisce mai in vittoria, ma sempre in sconfitta, che la terra è una, e che tutti sono una cosa sola, e che perciò devono riconciliarsi, abrogando il passato di odio e di lotta (“per eliminarne dalla terra il ricordo”, come dice il salmo di David, che poi sarebbe il perdono, nella visione di Panikkar). Il mondo come nascondiglio e insieme come manifestazione di Dio. Solo se così si fa umano, e nel suo abbassamento prende domicilio nell’umanità tutta intera, “solo un Dio ci può salvare”.
Nel sito pubblichiamo il discorso di Leone XIV ai Movimenti Popolari [anche su Aladinpensiero] e un articolo sulla possibile pace in Ucraina del prof Jeffrey Sachs, reduce da una vera aggressione verbale da parte di Carlo Calenda in una recente trasmissione de La 7.
Con i più cordiali saluti,
da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
Prima Loro
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La Cina o il ritorno dell’Impero di Mezzo attraverso il multilateralismo / L’ascesa del Sud del mondo
La Cina o il ritorno dell’Impero di Mezzo attraverso il multilateralismo
Di Cristina Buhigas* – Diario Red
Xi Jinping consolida la sua leadership internazionale al vertice dell’APEC, mentre Trump riesce solo a ottenere una moratoria commerciale e si rifugia nel bellicismo per fini interni.
“Le tempeste possono destabilizzare un piccolo stagno, ma non l’oceano. Dopo innumerevoli tempeste, l’oceano è ancora lì! Dopo oltre 5.000 anni di difficoltà, la Cina è ancora qui! Guardando al futuro, la Cina sarà sempre qui!” Con queste parole, il presidente cinese Xi Jinping rispose nel 2018, durante il primo mandato di Donald Trump, alle minacce commerciali della sua controparte americana. Sette anni dopo, il percorso del Regno di Mezzo verso la leadership economica globale si sta consolidando. Ciò è stato evidente al vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation Forum), dove una ventina di paesi hanno aderito al multilateralismo sostenuto dalla Cina sabato. La delegazione statunitense ha lasciato la Cina in anticipo, dopo aver ottenuto una moratoria di un solo anno sui dazi e sulle forniture di terre rare. Trump, nel tentativo di minimizzare l’esito di un incontro con Xi che aveva descritto come un “incontro incredibile”, ha fatto ricorso ancora una volta a una retorica bellicosa a uso interno, annunciando che gli Stati Uniti avrebbero ripreso i test nucleari, sospesi dal 1992.
I capitoli successivi dello stallo commerciale tra Washington e Pechino si svolgono in modo pressoché identico: la provocazione di Trump, una risposta cinese misurata, i negoziati, un accordo che lascia le cose come erano prima della provocazione e la corsa precipitosa del presidente degli Stati Uniti, armi in pugno. Ricordiamo che prima dell’estate, dopo l’assurda escalation dei dazi reciproci, la Cina è rimasta ferma, ma ha continuato ad aprirsi a nuovi mercati; c’è stata una moratoria sull’applicazione dei dazi e il presidente in arancione ha lasciato prima il vertice del G7 in Canada per concentrarsi sull’attacco di Israele all’Iran, proprio come ha fatto questa volta quando ha lasciato la Corea. La mossa del leader repubblicano si basa sulla certezza che la sua base interna sostenga sempre l’aggressione belligerante.
Durante le proteste di giugno, la popolarità di Trump era ai minimi storici, con i dimostranti in piazza e le aziende in perdita. Le cose non sono migliorate nelle ultime proteste; anzi, la reazione dell’opinione pubblica sta crescendo e ben quattro senatori repubblicani hanno votato con i democratici pochi giorni fa nel tentativo di revocare i dazi su oltre cento paesi. La misura non passerà senza l’approvazione della Camera dei Rappresentanti, ma rivela il crescente malcontento nei confronti delle politiche di Trump. Lui lo sa, ed è per questo che si è recato in Corea per ingraziarsi il suo avversario. “Il presidente Xi è un grande leader di un grande paese e penso che avremo un rapporto fantastico per molto tempo”, ha affermato. Per lui, era urgente placare le aziende tecnologiche, che non potevano produrre nulla (dai cellulari alle auto elettriche) senza la fornitura di terre rare di cui la Cina controlla il 90%, e gli agricoltori, disperati nel vendere la loro soia.
Il suo problema era che anche i cinesi lo sapevano. Ecco perché l’accordo si è concluso in parità: una nuova moratoria tariffaria bilaterale, questa volta per un anno, e la sospensione per lo stesso periodo delle restrizioni sulle esportazioni di terre rare che Pechino aveva appena imposto in risposta all’ampliamento da parte di Washington dell’elenco delle aziende legate alla Cina soggette a controlli sulle esportazioni. Trump si è gonfiato il petto mentre l’Air Force One decollava, sottolineando l’impegno della Cina nell’acquistare soia americana e nel collaborare alla lotta contro la droga. Quest’ultima, in realtà, si riferisce alla vendita di sostanze chimiche necessarie per produrre il fentanil, la bestia nera domestica che cerca di attribuire ad altri Paesi, quando invece era originata, tra le altre ragioni, dalla mancanza di un sistema sanitario pubblico nel suo Paese.
I negoziatori statunitensi devono aver chiarito al presidente di essere riusciti a lasciare le cose come stavano solo prima della sua ultima provocazione, perché il suo ricorso alla bellicosità è arrivato poco prima di entrare in quello che sarebbe stato “un incontro incredibile”. Sul suo account social, Truth ha scritto: “Dato che altri paesi hanno programmi di test, ho dato istruzioni al Dipartimento della Guerra [Pentagono] di iniziare a condurre test sulle nostre armi nucleari come fanno loro. Questo processo inizierà immediatamente”. In teoria, si è trattato di una risposta al test russo di un super siluro in grado di trasportare una testata nucleare, sebbene in quell’occasione non ne avesse una; ma è anche una manovra per spostare l’attenzione dalla guerra commerciale con la Cina, dove la vittoria è ben lungi dall’essere raggiunta, all’orgoglio militare della principale potenza mondiale.
Questo è il nocciolo della questione!, come diceva il comico messicano Cantinflas, nel determinare quale sia la potenza leader mondiale. È chiaro che tutti i grandi imperi della storia umana, quando sono caduti, si sono mantenuti per un bel po’ di tempo come se fossero ancora egemoni, ingannando se stessi e milioni di abitanti del pianeta. Questo è successo con l’Impero Romano, poi con quello spagnolo e, più tardi, con quello britannico, sostituito nel XX secolo da quello americano. Ora, l’autoproclamato “leader del mondo libero” viene progressivamente sostituito da una potenza emergente che non basa la sua crescita commerciale ed economica sul disprezzo per i suoi presunti partner nel resto del mondo, ma piuttosto sul multilateralismo. E il resto del mondo – Africa, America Latina e il resto dell’Asia – sta aderendo a questa formula.
Al 25° vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) di fine estate, era già chiaro che un gran numero di paesi, tra cui Russia, India e Iran, stavano unendo le forze con la Cina per coordinare le politiche di sicurezza, difesa, energia e commercio per promuovere l’integrazione regionale. Xi Jinping dichiarò all’epoca che si trattava di abbandonare la “mentalità da Guerra Fredda” e il “comportamento prepotente”, presumibilmente da parte degli Stati Uniti. L’ascesa dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) dimostra il consolidamento di questo sistema internazionale multipolare. Alla riunione dell’APEC, dove il presidente cinese ha concordato con il primo ministro canadese Mark Carney e il primo ministro giapponese Sanae Takaichi di “ripristinare le relazioni”, l’avanzata della Cina verso l’assunzione di una leadership internazionale era evidente, mentre Trump tornava a Washington ignaro di quanto stava accadendo.
Chi sembra essere fuori dal mondo sono i leader dell’Unione Europea. La Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha recentemente attaccato il gigante asiatico, accusandolo di aver sostituito “l’ordine mondiale cooperativo di 25 anni fa” con “un’economia globale conflittuale”, dimenticando opportunamente il ruolo cruciale degli Stati Uniti nel conflitto. Ha anche accusato la Cina di furto di tecnologia, investimenti ostili, controlli sulle esportazioni e sussidi come “strumenti di coercizione e concorrenza”. Vale la pena ricordare che l’UE, nel corso della sua storia, ha controllato le esportazioni e sovvenzionato la sua agricoltura e industria, in contrasto con la libera concorrenza che afferma di difendere. Von der Leyen ha concluso minacciando: “Siamo pronti a usare tutti i nostri strumenti per rispondere, se necessario”. Ma nessuno crede più alle sue minacce dopo che non ha fatto nulla per contrastare gli aumenti dei dazi statunitensi, andando invece, prima da sola e poi con diversi capi di Stato e di governo dell’UE, a rendere omaggio all’uomo vestito d’arancio e a sottomettersi ai suoi dettami.
Dopo aver appreso dell’accordo tra Cina e Stati Uniti, Bruxelles si è subito schierata a favore, basandosi sulle parole di Trump dopo l’incontro con Xi: “L’intera questione delle terre rare è stata risolta […] E questo vale per il mondo”. Pertanto, il Commissario per il Commercio Maroš Šefčovič ha organizzato incontri tecnici con la sua controparte cinese, Wang Wentao, che sembrano essersi conclusi con un esito simile, almeno per quanto riguarda le terre rare, all’accordo raggiunto in Corea dai due leader mondiali. Indipendentemente da chi detenga l’egemonia, entrambi sono chiaramente al di sopra dell’UE, che ha perso la sua indipendenza geopolitica, economica e commerciale. Ha perso anche la sua indipendenza difensiva, che ora è nelle mani della NATO, controllata da Washington, ma questa è un’altra storia.
Mentre tutto questo accade lontano dai suoi confini, Pechino sta consolidando la sua espansione commerciale e perseguendo la crescita interna, con un fermo impegno verso quella che chiama “economia reale”, che non è altro che il mantenimento dell’economia produttiva, dell’industria nazionale in tutti i settori, per creare posti di lavoro, aumentare il potere d’acquisto dei cittadini e stimolare i consumi come motore della crescita. Ignari di questo processo, l’Europa, convinta che sia un letto di rose, e gli Stati Uniti rimangono immersi nella finanziarizzazione dell’economia e negli investimenti immobiliari, che non possono che generare ulteriore precarietà nella società, nuove bolle e crisi. Che Confucio abbia pietà di noi!
*Cristina Buhigas è una giornalista specializzata in economia spagnola e internazionale. Nel corso della sua lunga carriera, dall’ex quotidiano Pueblo alla moderna edizione cartacea di Público, ha lavorato per innumerevoli pubblicazioni, tra cui La Economía 16, Cambio 16, La Gaceta de los Negocios, La Clave e l’agenzia di stampa Europa Press, di cui è stata caporedattrice. Dopo il pensionamento, si è dedicata alla letteratura e ha scritto sei romanzi che esplorano l’erotismo femminile da una prospettiva femminista.
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L’ascesa del Sud del mondo
Di Leon Hadar* – Global Zetgeist Substack
Riequilibrare il potere in un mondo multipolare.
Per decenni, i politici e gli analisti occidentali hanno operato nella rassicurante convinzione che l’ordine internazionale sarebbe rimasto fondamentalmente unipolare, con gli Stati Uniti e i loro alleati a stabilire le regole del gioco. Quell’era sta finendo, non con grandi fanfare, ma attraverso il costante accumulo di peso economico, assertività diplomatica e innovazione istituzionale provenienti dal Sud del mondo.
La questione non è più se il Sud del mondo conti davvero. È se Washington e i suoi alleati riusciranno ad adattarsi a un mondo in cui non detengono più il monopolio sulla definizione delle norme internazionali, dell’architettura commerciale e degli accordi di sicurezza.
Il fenomeno BRICS e la spinta verso la multipolarità
L’espansione dei BRICS – che ora comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, con nuovi membri tra cui Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti – rappresenta più di una sfida simbolica all’egemonia occidentale. Riflette una profonda insoddisfazione nei confronti di un sistema internazionale percepito come favorevole agli interessi atlantici, marginalizzando le preoccupazioni della maggioranza dell’umanità.
I critici liquidano i BRICS come un raggruppamento incoerente con interessi divergenti. Non hanno tutti i torti. India e Cina mantengono relazioni di confine tese. Brasile e Russia hanno modelli economici molto diversi. Eppure, questo non coglie il punto. I BRICS non funzionano come un blocco unito, ma come una piattaforma per articolare una visione alternativa, in cui i paesi in via di sviluppo non sono eterni esecutori di regole, ma partecipanti attivi nella definizione della governance globale.
L’istituzione della Nuova Banca di Sviluppo e la spinta verso sistemi di pagamento alternativi al di fuori della rete SWIFT, dominata dal dollaro, non sono semplici adattamenti tecnici. Sono mosse strategiche per creare ridondanza nell’infrastruttura finanziaria globale, riducendo la vulnerabilità alle sanzioni occidentali e alla coercizione economica. Quando la Russia fu esclusa da SWIFT in seguito all’invasione dell’Ucraina, ogni nazione del Sud del mondo prese atto della propria esposizione.
Trasformazione economica: dalla periferia al motore
Il baricentro economico si sta spostando verso sud e verso est da due decenni, e questa tendenza non accenna a invertirsi. A parità di potere d’acquisto, le economie emergenti e in via di sviluppo rappresentano ormai circa il 60% del PIL globale. La Cina da sola è diventata il principale partner commerciale per oltre 120 paesi, ben più degli Stati Uniti.
Non si tratta più semplicemente di manodopera a basso costo. Paesi come India, Vietnam, Indonesia e Messico stanno risalendo la catena del valore, sviluppando sofisticate capacità produttive, economie digitali ed ecosistemi di innovazione. Il Sud del mondo non si limita più a estrarre risorse e assemblare prodotti progettati altrove; sta sempre più progettando, ingegnerizzando e brandizzando i propri beni e servizi per i mercati globali.
I dati demografici rafforzano questo cambiamento. Mentre le nazioni occidentali e persino la Cina si trovano ad affrontare l’invecchiamento della popolazione e la potenziale carenza di manodopera, gran parte del Sud del mondo, in particolare in Africa e Asia meridionale, ha una popolazione giovane e in crescita. Entro il 2050, la sola Africa rappresenterà oltre un quarto della popolazione mondiale. Questo rappresenta sia un potenziale economico che un’influenza geopolitica.
La transizione verso le energie rinnovabili avvantaggia ulteriormente le nazioni del Sud ricche di risorse. Il controllo su litio, cobalto, terre rare e altri minerali essenziali fornisce un vantaggio che petrolio e gas hanno offerto nel secolo scorso. Paesi come Cile, Repubblica Democratica del Congo e Indonesia dispongono di risorse essenziali per batterie, pannelli solari e turbine eoliche. Una politica industriale intelligente potrebbe trasformare queste risorse in capacità produttive e tecnologiche piuttosto che in semplice estrazione.
Sfida all’ordine guidato dall’Occidente
La crescente assertività del Sud del mondo pone interrogativi scomodi per l’architettura istituzionale del secondo dopoguerra. La composizione permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riflette ancora la costellazione di potere del 1945, non la realtà del 2025. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, nonostante le riforme, rimangono dominati dalle quote di voto e dalle prospettive politiche occidentali. Persino il termine “comunità internazionale” spesso significa poco più che gli Stati Uniti e i suoi alleati.
Le nazioni del Sud operano sempre più attraverso quadri di riferimento alternativi. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai offre un dialogo sulla sicurezza che esclude le potenze occidentali. La Banca Asiatica per gli Investimenti nelle Infrastrutture offre finanziamenti per lo sviluppo senza le condizioni di governance imposte dalle istituzioni occidentali. Accordi regionali come l’ASEAN, l’Unione Africana e il Mercosur gestiscono questioni che un tempo avrebbero potuto essere portate all’attenzione di forum globali dominati dalle potenze occidentali.
Non si tratta necessariamente di ostilità verso l’Occidente. Si tratta di pragmatismo e cautela. Perché le economie emergenti dovrebbero continuare a dipendere da istituzioni in cui hanno voce limitata, quando possono creare strutture parallele più rispondenti ai loro interessi? Perché accettare un “ordine internazionale basato su regole” quando queste regole sono state scritte senza il loro contributo e vengono applicate selettivamente?
Il conflitto in Ucraina ha cristallizzato questa prospettiva. Mentre le nazioni occidentali hanno descritto la guerra come un chiaro caso di aggressione che richiedeva una condanna unitaria e sanzioni, gran parte del Sud del mondo si è rifiutata di schierarsi. Paesi dall’India al Sudafrica al Brasile hanno mantenuto relazioni sia con la Russia che con l’Occidente, dando priorità ai propri interessi rispetto all’allineamento ideologico. Questo non era relativismo morale; era realismo. Queste nazioni considerano l’indignazione occidentale per la sovranità dell’Ucraina come selettiva, dati i precedenti interventi in Iraq, Libia e altrove.
La dimensione della tecnologia e dell’innovazione
La tecnologia rappresenta una frontiera cruciale in questo riequilibrio. Per gran parte dell’era digitale, l’innovazione è scaturita dalla Silicon Valley, da Seattle e da alcuni altri hub occidentali. La situazione sta cambiando rapidamente.
Il settore tecnologico cinese, nonostante le recenti pressioni normative e i controlli sulle esportazioni statunitensi, ha raggiunto risultati di vera innovazione in settori come i pagamenti mobili, l’intelligenza artificiale, i veicoli elettrici e le infrastrutture di telecomunicazione. Le aziende cinesi non si limitano a copiare; stanno addirittura superando i concorrenti in settori specifici. La tecnologia 5G di Huawei, a prescindere dalle implicazioni per la sicurezza, era tecnicamente competitiva con qualsiasi cosa offrissero le aziende occidentali.
L’infrastruttura digitale indiana, dal sistema di identificazione Aadhaar all’interfaccia di pagamento unificata, ha creato un modello per lo sviluppo di un’economia digitale inclusiva che altre nazioni stanno studiando e adattando. Le aziende indiane di servizi IT si sono evolute da semplici operatori di back-office a partner strategici nella trasformazione digitale. Le startup indiane innovano sempre di più per i mercati del Sud del mondo, creando soluzioni su misura per le condizioni delle economie emergenti anziché adattare i prodotti occidentali.
La rivoluzione del mobile money in Africa, avviata da servizi come M-Pesa in Kenya, ha affrontato le sfide dell’inclusione finanziaria in modo diverso rispetto ai modelli bancari tradizionali. Innovazioni simili nell’ambito dell’agritech, della tecnologia sanitaria e della tecnologia educativa emergono da contesti locali e risolvono problemi locali, a volte in modo più efficace rispetto alle soluzioni importate.
Questa diffusione tecnologica ha implicazioni geopolitiche. Quando le nazioni possono scegliere tra piattaforme tecnologiche americane, cinesi, europee o, sempre più spesso, nazionali, ottengono un potere negoziale e riducono la dipendenza da una singola potenza.
Dinamiche di potere regionali e autonomia strategica
All’interno del Sud del mondo, le dinamiche di potere sono mutevoli e complesse. Potenze regionali come Arabia Saudita, Turchia, Brasile, Sudafrica e Indonesia affermano sempre più politiche estere indipendenti, anziché allinearsi automaticamente alle preferenze occidentali.
La decisione dell’Arabia Saudita di aderire ai BRICS e di normalizzare le relazioni con l’Iran (mediata dalla Cina) segnala una strategia di copertura. La Turchia, nonostante l’appartenenza alla NATO, persegue acquisti di armi e iniziative diplomatiche che spesso si scontrano con gli interessi americani. Il Brasile, sotto diverse amministrazioni, ha respinto la politica statunitense in America Latina, costruendo al contempo legami attraverso l’Atlantico meridionale verso l’Africa.
Queste nazioni aspirano all’autonomia strategica, ovvero alla capacità di perseguire i propri interessi senza il permesso di Washington o Bruxelles. Non sono necessariamente anti-occidentali, ma hanno un orientamento post-occidentale: disposte a cooperare con l’Occidente quando gli interessi si allineano, ma altrettanto disposte a collaborare con la Cina, la Russia o tra loro quando ciò è più utile ai loro scopi.
Ciò crea un ambiente internazionale più fluido e transazionale. La rigida struttura a blocchi della Guerra Fredda e persino le alleanze “hub-and-spoke” del periodo unipolare stanno cedendo il passo a partnership sovrapposte, coalizioni su temi specifici e strategie di multi-allineamento. Per i policymaker abituati alla chiarezza del “o con noi o contro di noi”, questa ambiguità risulta scomoda. Ma è la nuova normalità.
Sfide persistenti e contraddizioni interne
Niente di tutto ciò suggerisce che l’ascesa del Sud del mondo sia inevitabile o priva di problemi. Restano sfide significative.
Molte economie del Sud del mondo sono ancora alle prese con corruzione, istituzioni deboli, deficit infrastrutturali e instabilità politica. Il debito è aumentato, in parte a causa dei prestiti cinesi, ma anche dei creditori occidentali e dei mercati obbligazionari. Il cambiamento climatico colpirà più duramente le regioni tropicali e subtropicali, minacciando la produttività e l’abitabilità agricola.
Le divisioni interne al Sud del mondo sono sostanziali. India e Cina competono per l’influenza in Asia e Africa. Le potenze mediorientali perseguono agende contrastanti. Le nazioni africane hanno interessi diversi che non si allineano automaticamente. Il concetto di un “Sud del mondo” unificato è in parte ambizioso, in parte retorico: utile per alcuni negoziati, ma non riflette una vera solidarietà su tutte le questioni.
Inoltre, il potere militare rimane concentrato in Occidente e in Cina. Nonostante la crescita economica, la maggior parte delle nazioni del Sud non ha le capacità difensive per sfidare le potenze consolidate in modo dinamico. Si affidano alla leva economica, alle manovre diplomatiche e ai forum multilaterali piuttosto che alla proiezione di un potere duro.
Implicazioni per la politica statunitense
Per i politici americani, l’ascesa del Sud del mondo richiede un adeguamento strategico, non il panico.
In primo luogo, gli Stati Uniti devono abbandonare l’illusione di ripristinare un primato indiscusso. La questione non è se accettare o meno un mondo multipolare – che è già realtà – ma come gestirlo efficacemente. Inquadrare ogni progetto infrastrutturale cinese o iniziativa dei BRICS come una minaccia esistenziale porta a reazioni eccessive e aliena chi è indeciso.
In secondo luogo, gli Stati Uniti dovrebbero riconoscere che molte nazioni del Sud non stanno scegliendo tra America e Cina; stanno scegliendo di non scegliere. Forzare decisioni binarie le allontana. Un approccio più sofisticato riconosce i loro legittimi interessi nel mantenere molteplici partnership.
In terzo luogo, le istituzioni occidentali necessitano di una vera riforma. L’ampliamento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’aumento della quota di voto dei Paesi in via di sviluppo nel FMI e nella Banca Mondiale e la creazione di spazio per le voci dei Paesi del Sud nella definizione degli standard internazionali ridurrebbero l’attrattiva di istituzioni alternative. I cambiamenti superficiali non saranno sufficienti; è necessaria una condivisione significativa del potere.
In quarto luogo, l’impegno economico deve offrire proposte di valore competitive. La Belt and Road Initiative ha avuto successo anche perché ha fornito finanziamenti infrastrutturali laddove le istituzioni occidentali non lo hanno fatto. Se gli Stati Uniti e gli alleati vogliono competere, devono effettivamente proporre alternative interessanti e fattibili, anziché limitarsi a criticare le condizioni cinesi.
Infine, il multilateralismo selettivo e la creazione di coalizioni su questioni specifiche potrebbero rivelarsi più efficaci rispetto alla richiesta di un allineamento globale. La cooperazione climatica, la preparazione alle pandemie, gli standard tecnologici e la sicurezza marittima potrebbero trarre vantaggio da partnership flessibili che non richiedono conformismo ideologico.
Conclusione: adattamento, non resistenza
L’ascesa del Sud del mondo non significa che il declino dell’Occidente sia inevitabile o che i valori democratici liberali siano obsoleti. Significa che tali valori saranno messi alla prova dalla competizione con modelli alternativi, e l’Occidente dovrà persuadere piuttosto che dettare legge.
Il sistema internazionale si sta rimodellando, non con un progetto ambizioso, ma attraverso innumerevoli decisioni graduali prese da nazioni che perseguono i propri interessi in un contesto di potere più distribuito. Resistere a questa trasformazione è inutile e controproducente. L’adattamento, pur mantenendo gli interessi e i valori fondamentali, offre una strada più promettente.
La questione per gli Stati Uniti e i loro alleati non è se accettare la crescente influenza del Sud del mondo – questo sta accadendo comunque. La questione è se contribuire a plasmare questa transizione in modo costruttivo o resisterle in modo distruttivo. La prima opzione richiede umiltà, flessibilità e il riconoscimento che l’ordine post-1945, per quanto benefico possa essere stato, sta cedendo il passo a qualcosa di diverso. La seconda strada porta all’irrilevanza.
Per il Sud del mondo, la sfida è convertire il potenziale in influenza sostenibile: costruire istituzioni efficaci, risolvere le sfide dello sviluppo, gestire le contraddizioni interne e dimostrare che le alternative ai modelli occidentali possono garantire prosperità e stabilità. Le parole sono facili; saranno i risultati a determinare se questo momento rappresenti un autentico spostamento di potere o semplicemente una temporanea rottura prima che le gerarchie consolidate si riaffermino.
La scommessa più intelligente, tuttavia, è sulla trasformazione. I fondamentali economici, le tendenze demografiche e lo slancio politico puntano tutti verso un sistema internazionale più distribuito. Quanto agevole o turbolento sarà questa transizione dipenderà dalle scelte fatte nelle capitali del Nord e del Sud. L’ascesa del Sud del mondo è reale. L’unica domanda è se le potenze esistenti faciliteranno un riequilibrio pacifico o se vi resisteranno fino a quando non saranno costrette ad accettare realtà mutate. La storia insegna che la resistenza è costosa e, in definitiva, infruttuosa. La saggezza sta nell’adattamento.
*Leon Hadar è un analista di politica estera e autore di “Sandstorm: Policy Failure in the Middle East”.
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