Risultato della ricerca: agricoltura

Lavoro

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di Fiorella Farinelli, su Rocca.

Luana D’Orazio, apprendista di 22 anni, ingoiata il 4 maggio da un macchinario in una fabbrica de distretto tessile di Prato. La sua fresca bellezza postata su Facebook, la ragazza-madre di una bambina di 5 anni, il fratello gravemente disabile, un salario di 980 Euro (ma qualche volta, ha raccontato sua mamma, capitava che fossero 1000 e allora era una piccola festa).

Luana
E poi il sospetto, terribile, che come nell’orditoio gemello sequestrato dalla magistratura, anche in quello che l’ha uccisa fossero stati disattivati i dispositivi automatici di sicurezza. Intenzionalmente, per permetterne la massima velocità operativa, contando magari sul fatto che gli operai più giovani di sicurezza non ne sanno abbastanza, e sul clima di condivisione che c’è di solito nelle piccole aziende dove il sindacato non c’è e il delegato alla sicurezza neppure. Una tempesta perfetta, dunque, con gli ingredienti giusti per sollevare un’ondata di dolore e indignazione nell’opinione pubblica. E per tornare ancora una volta a interrogarsi, chi solo retoricamente e chi sul serio, sulle «morti bianche», quante, dove, perché. Ma c’è da scommettere che le reazioni solo emotive non dureranno a lungo. Le morti sul lavoro, una media nel 2019 di 3 al giorno festività comprese, di solito non fanno granché notizia. Per tanti motivi, tra conformismi e convenienze, sono tra le meno visibili. Tanto più oggi, anestetizzati come siamo da mesi e mesi di centinaia di morti quotidiane per pandemia. E tutti o quasi con la tentazione di giustificare ogni semplificazione o ogni deroga che faciliti l’agognata ripresa produttiva (nella funivia del Mottarone finalmente riaperta, non è stata la disattivazione dei freni automatici la causa principale della tragedia del 23 maggio, lo schianto al suolo della cabina con 14 vite perdute e un bambino gravemente ferito?).

sulla sicurezza si fa troppo poco
Sul rischio di un rapido ritorno al silenzio, e su quello assai più grave che sulla sicurezza nei luoghi di lavoro si continui a fare troppo poco, e che quel che si fa non si faccia come si dovrebbe, è tornato il 12 maggio, in un question time rivolto al presidente Draghi, il deputato Guglielmo Epifani. Diceva, l’ex segretario generale della Cgil nel suo penultimo intervento in aula prima di morire, che la pur positiva decisione del governo, assunta già prima della morte di Luana, di rafforzare le attività dell’Ispettorato nazionale del lavoro con 1000 nuove assunzioni – e poi forse altre 1000 – in aggiunta a un organico attuale di circa 4.500 addetti, non può bastare da sola a contenere drasticamente i rischi di gravi incidenti, più alti da noi rispetto alla media europea, e a paesi manifatturieri come
e più del nostro, per esempio la Germania. Una media di 1200 l’anno solo le morti, la punta dell’iceberg di centinaia di migliaia di incidenti sul lavoro, 369.290 gli infortuni accertati nel 2019, il 65,8% delle denunce presentate (molte di più quelle degli ultimi quindici mesi, ma i numeri più recenti sono meno attendibili per via degli infortuni dovuti a Covid 19 che sono un terzo del totale, delle tante attività rimaste chiuse e della riduzione per effetto dello smartworking degli incidenti «in itinere»).
È però fin troppo pacifico che una parte degli infortuni da noi non vengano censiti, sia oggi che prima della pandemia, perché molto lavoro è in nero e allora le denunce non ci sono o vengono occultate da ricoveri in ospedale attribuiti ad altre cause. Ma perché aumentare gli organici dedicati alle ispezioni potrebbe non bastare? Perché, argomentava Epifani, è altrettanto importante superare la frammentazione degli interventi di controllo e di ispezione, riconducibile al fatto che sono affidati sia al Ministero del lavoro che a quello della sanità, quindi sia allo Stato che alle Regioni (e ogni Regione sempre un pò a modo suo, nonostante il solenne accordo di qualche anno fa in Conferenza Unificata). L’Istituto nazionale del lavoro è nato, nel 2015, proprio per coordinare quello che oggi soffre di interventi scoordinati, di interferenze, sovrapposizioni, perfino rivalità e concorrenze tra i vari enti. Per questo ha un profilo istituzionale e organizzativo che lo rende «terzo», e autonomo da altri attori e autorità. Ma è stato finora poco finanziato, ha un organico insufficiente non solo per quantità ma anche per qualità tecnica e professionale. E il problema dei problemi è che dispone di una banca-dati non ancora integrata ed interoperativa con quelle delle Regioni, delle Asl, di Inps, Inail, e di altri enti con funzioni analoghe o connesse che però operano ciascuno per conto proprio, non di rado pestandosi i piedi. Ecco anche qui, e sulla pelle di chi lavora, gli irrisolti problemi del nostro scombinato regionalismo, dei ritardi nella modernizzazione digitale, delle contrarietà o resistenze istituzionali, politiche, corporative a un funzionamento efficiente, integrato, trasparente, socialmente controllabile delle attività e dei servizi pubblici. Ci vorrà tempo, e molto lavoro, per venirne a capo. Nel frattempo, era il suggerimento di Epifani, la garanzia del coordinamento delle attività ispettive dovrebbe essere assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio. Bisogna prepararsi, da subito, ai maggiori rischi che potrebbero determinarsi sotto la pressione della ripresa produttiva e del recupero affannoso di ciò che è andato perduto.

la vita e la salute non ammettono deroghe
I question time, si sa, si devono fare in pochi minuti. Ma chi di sicurezza del lavoro si occupa, non solo nel sindacato ma anche nei tribunali, nelle università, tra gli avvocati e i medici del lavoro, sa che i problemi sono anche altri, non meno inquietanti dell’inefficienza del pubblico e della sua non infrequente arrendevolezza agli interessi delle imprese (con la cattiva abitudine, che si mormora essere assai diffusa e facilitata da troppo laschi regolamenti regionali, di anticipare informalmente ai datori di lavoro le date delle ispezioni). Se è certo che di ispezioni bisogna farne di più (nel 2020 l’Istituto nazionale ne ha fatte solo 10.179, una media di neanche 2 per ogni addetto) e se, come ha denunciato il sindaco di Prato, nella sua città non ci sono più di 4-5 ispettori a fronte di oltre 4.000 aziende del suo distretto tessile, è certissimo che una migliore «cultura della sicurezza» richiede la costruzione di un triangolo virtuoso tra innovazione tecnologica e manutenzione dei macchinari, intese più stringenti tra le parti sociali, e tanta formazione e qualificazione professionale del personale, non solo degli operatori esecutivi ma anche di chi dirige, proprietari e management.
Rischi e guai, infatti, vengono da più parti. Innanzitutto da un sistema produttivo fatto per il 92% di piccole e piccolissime imprese poco in grado di investire economicamente in tecnologie sofisticate ad alto profilo di sicurezza (macchinari obsoleti e maltenuti sono frequentissimi anche in agricoltura, costruzioni, logistica), e abituate da tempo a giocare la partita della competitività principalmente
sulla riduzione dei costi, quelli del lavoro, delle attrezzature, della formazione.
Occorrono interventi pubblici mirati, una contrattazione nazionale e decentrata più esigente, una presenza più attiva delle rappresentanze sindacali nelle singole aziende e anche in ambiti settoriali e territoriali. Ma è decisivo anche che i lavoratori – tutti, anche i precari e stagionali, anche i collaboratori familiari, anche i tanti di provenienza straniera che conoscono poco l’italiano – siano più informati, consapevoli, responsabili. In grado, anche se condizionati dalla disparità rispetto al potere aziendale, anche se con la paura di perdere il lavoro, anche se non sempre supportati dalla presenza in azienda del sindacato, di rendersi conto dell’entità del rischio, di denunciare il mancato rispetto delle regole, in proprio o rivolgendosi a chi può aiutarli. In grado anche di utilizzare correttamente, senza disattenzioni e approssimazioni, i dispositivi personali di tutela e sicurezza. La vita e la salute di ciascuno e di tutti non ammettono deroghe.

formazione, vertenze, controllo
Ma è una sfida, quella della formazione obbligatoria dei lavoratori nel campo della sicurezza, tanto strategica quanto trascurata. In Italia non mancano, s’intende, le situazioni di eccellenza, per lo più in aziende di grande e media dimensione. Ma in moltissimi altri casi, dove le aziende vedono nella formazione solo un costo, una perdita dannosa di tempo di lavoro, un potenziale ostacolo alla produttività e alla disciplina di fabbrica, le attività formative vengono dilazionate, ridotte al minimo, realizzate in modalità prevalentemente astratte e teoriche (sempre più spesso on line), spesso affidate a formatori esterni che sanno poco o niente delle caratteristiche delle macchine e delle prestazioni di quella determinata unità operativa, dell’organizzazione del lavoro, dei livelli di istruzione e della qualità professionale degli addetti. Una formalità banalizzata, e inadatta allo scopo. Nell’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici, si prevede correttamente che la formazione comprenda anche l’analisi degli infortuni che si sono verificati, la simulazione degli incidenti possibili, lo scambio informativo e formativo tra lavoratori più esperti e meno esperti nello specifico contesto operativo, tra le macchine e sulle linee di produzione. È un’indicazione appropriata, ma sarà possibile attuarla, e svilupparla anche in altri contratti di lavoro? Sono stati gli stessi sindacalisti che l’hanno firmato a proporre, in queste settimane di allarme e di emozione per la morte di Luana, che in ogni azienda si tengano incontri straordinari tra direzioni e organismi sindacali per
analizzare i rischi connessi a questa fase di ripresa a pieno regime della produzione. A sollecitare a tutto il mondo sindacale la costruzione di vertenze unitarie sui temi della sicurezza e della prevenzione, e per il rilancio di una formazione continua non finalizzata unicamente all’addestramento alla prestazione o all’aggiornamento delle competenze finalizzato all’innovazione tecnologica ma anche allo sviluppo della qualità professionale. È infatti anche da qui che passa la dignità del lavoro operaio, la riconquista del suo assai logorato valore sociale. Soprattutto per i più giovani per cui il lavoro in fabbrica è spesso oggi solo il segno di un cattivo destino o del fallimento di altri più attraenti progetti di vita, una condizione da cui scappare il prima possibile, una realtà senza alcuna possibilità individuale e collettiva di crescita e di emancipazione. Non era così una volta, ma oggi bisogna tenerne conto, anche con la formazione.

Fiorella Farinelli

ROCCA 1 LUGLIO 2021
tanta strada nei miei sandali
tanta voglia di futuro

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Infortuni sul lavoro. Le relazioni del dottor Kafka
07-06-2021 – di: Vincenzo Cottinelli su Volerelaluna.
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Il Sud per l’Italia e l’Europa. Un obiettivo strategico nel PNRR?

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Quaderno della Svimez.
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Intervento. slides del Prof. Gianfranco Viesti.

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Documentazione fornita da Mauro Beschi del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale.
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Allego, come ulteriore contributo informativo dopo la videoconferenza del 16 giugno 2021, il Quaderno della Svimez cui ha fatto riferimento la relazione del Presidente Adriano Giannola e le slides del Prof. Gianfranco Viesti.
Ricordo che la registrazione della riunione è fruibile anche sul Profilo facebook del CDC:
incontro promosso da Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Svimez, Osservatorio sul regionalismo differenziato. Introduce il Presidente nazionale del CDC professor Massimo Villone. https://www.facebook.com/referendumiovotono/?ref=bookmarks
Saluti
Mauro Beschi
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Per il Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria (CoStat) è intervenuto il coordinatore Andrea Pubusa.
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ALTRI DOCUMENTI DI INTERESSE
demos-sardegnaDocumento di Democrazia Solidale Sardegna.
PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE E L’ECOLOGIA INTEGRALE
DELLA SARDEGNA

«Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.» (Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri).

Queste parole senza tempo del compianto scrittore sardo dovrebbero ispirare chi, tra i Sardi, è chiamato a costruire il futuro per le prossime generazioni: Istituzioni, Partiti, Forze Sociali, che hanno il dovere di progettare uno sviluppo sociale, economico e culturale che ci faccia camminare sulla nostra terra “Leggeri”, per l’appunto, senza calpestarla. Un altro modo di pensare e descrivere una Sardegna sostenibile e prospera…
GLI OSTACOLI PER IL FUTURO DELLA SARDEGNA

La Sardegna sconta anni di mancata o inadeguata programmazione e di sottovalutazione di fenomeni e dinamiche di dimensioni storiche: la globalizzazione dei mercati, l’avanzata di nuove potenze politiche e economiche mondiali come la Cina, il cambiamento climatico, il colossale fenomeno migratorio, l’aumento del divario sociale conseguente all’accumulo di enormi ricchezze da parte di pochissimi. Occorre inoltre includere i travagli dell’Europa e le dinamiche geopolitiche mediterranee e globali e, soprattutto, il cambiamento delle società che vedono nascere, nonostante le resistenze sovraniste e neo nazionaliste, un nuovo melting pot globale, favorito dall’accesso all’informazione, alla mobilità, all’istruzione, alle lingue.
La Sardegna, in altre parole, ha visto progressivamente ridursi, dal dopoguerra ad oggi, la capacità della classe dirigente sarda nel capire o interpretare il cambiamento, la modernità e le sfide che si presentavano con il nuovo millennio.
Non è quindi un caso se la Sardegna si è trovata impreparata ad affrontare la pandemia Covid-19 e, oggi, ad elaborare progetti adeguati alla ripartenza dopo la pandemia, entro il quadro dello sviluppo sostenibile e nell’orizzonte dell’ecologia integrale.
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L’attuale giunta regionale ha grandi responsabilità nell’essersi concentrata su riforme tanto inutili quanto fuori contesto, come quella della sanità o degli enti locali (le 8 provincie), e nel non aver mai affrontato “di petto” i grandi problemi strutturali dell’isola, come la continuità territoriale e i trasporti, la crisi produttiva e l’assenza di modello di sviluppo di riferimento. È tuttavia doveroso riconoscere che l’impreparazione della politica sarda proviene da oltre tre decenni di assenza di visione, di consuetudine metodologica e di adagiamento sul portato ideale dei padri della Sardegna autonoma.
La Sardegna è in forte ritardo perché il 2030 è domani, il punto di non ritorno ecologico è prossimo (se non forse superato) e i diciassette obiettivi stabiliti dall’”Agenda per lo Sviluppo Sostenibile”, in Sardegna, sono ben lontani dall’essere raggiunti; su alcuni, paradossalmente, tende all’arretramento.
La nostra isola è in drammatico ritardo su povertà, salute, istruzione, parità di genere, energia sostenibile, crescita economica e lavoro dignitoso, infrastrutture, comunità sostenibili, cambiamento climatico, come dimostrano i dati ISTAT sul monitoraggio dell’Agenda 2030. Solo partendo da questa consapevolezza, dalla misurazione di questo ritardo si potrà recuperare, progettare il futuro e consegnare la Sardegna alle prossime generazioni migliore di come la abbiamo ricevuta.
Le responsabilità stanno oltre mare, in uno Stato spesso lontano e in una Unione Europea incompiuta, ma molte delle responsabilità sono locali, a partire da come negli ultimi anni è stata interpretata (male) l’Autonomia sarda, lasciata scadere e invecchiare senza adeguarla ai tempi e reinterpretarla; da come si è generato un centralismo regionale, peggiore di quello nazionale, ancor più burocratico, inefficiente e umiliante per le Autonomie Locali, i Comuni, le comunità.
Ma occorre anche riconoscere le responsabilità sarde nell’aver alimentato una nuova, diffusa e provinciale resistività identitaria, avvolta nei Quattro Mori in difesa da inesistenti “nuovi invasori”, come nel caso dei migranti, piuttosto che aprirsi al mondo e alla contaminazione, partecipando, appunto, alla costruzione di una nuova comunità globale.
Con questo documento noi, donne e uomini di DEMOCRAZIA SOLIDALE SARDEGNA, vogliamo contribuire al risveglio, usando volutamente il plurale nel richiamare alle responsabilità e senza lanciare accuse, per chiamare tutti all’impegno per il futuro, perché domani sarà troppo tardi.

LE PROPOSTE PER LA RIPRESA E LA RESILIENZA DELLA SARDEGNA UNA NUOVA REGIONE, LE NOSTRE RIFORME
L’Unione Europea, nel varare l’insieme delle misure per la ripartenza dopo la pandemia Covid-19, a partire dal Next Generation Fund, è stata netta nel definire le giuste condizioni per l’accesso alle colossali risorse economiche messe a disposizione. La principale, tra queste, è quella della attuazione di riforme vere, dettagliate e funzionali allo sviluppo.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), in conseguenza, prevede tre livelli di riforme da attuare: orizzontali e strutturali (pubblica amministrazione, giustizia); abilitanti (semplificazione e razionalizzazione della legislazione, promozione della concorrenza); settoriali (fisco, ammortizzatori sociali, ambiente). Si tratta di riforme funzionali al buon utilizzo delle risorse, alla loro finalizzazione
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in tempi certi e brevi, al monitoraggio dei processi ed alla rendicontazione, rafforzate da una governance esercitata da una “cabina di regia” dotata di forza di legge.
Del pari, se la Sardegna vuole essere altrettanto adeguata nel gestire la parte di PNRR che le spetta (e progettare il proprio futuro) deve abbandonare la logica della mera rivendicazione e elencazione delle “doglianze” e partire da una profonda autoriforma ripensando/aggiornando l’Autonomia regionale e con riforme locali strutturali, abilitanti e settoriali. Non è più rimandabile, infatti, procedere su:
- Nuovo Statuto, per rinegoziare un rapporto “speciale” con lo Stato Nazionale e l’Unione Europea, superare il centralismo regionale, attuare la partecipazione attiva delle autonomie locali e della società organizzata (rappresentanze sociali e terzo settore), decentrare poteri ai Comuni, semplificare/razionalizzare gli enti intermedi quali, ad esempio, le Provincie.
- Semplificazione e sburocratizzazione, con particolare riferimento al sistema regionale, all’efficientamento/potenziamento delle amministrazioni comunali, al miglioramento dei servizi di prossimità ai cittadini e alle imprese, allo snellimento dei processi autorizzativi ambientali, paesaggistici, …
- Nuovo Piano energetico e ambientale, con l’orizzonte al 2050 per raggiungere quanto prima la “neutralità carbonica” al 2050, favorendo lo sviluppo delle fonti rinnovabili, la sicurezza energetica e la tutela del territorio e dell’ambiente.
- Sanità pubblica e Servizi Socio – Assistenziali, per dare stabilità organizzativa e un assetto territoriale efficace e al servizio delle persone, per risanare le ferite inferte dalla pandemia e recuperare i troppi deficit e fragilità sociali
- Formazione professionale e istruzione pubblica, per renderle prossime e funzionali alla affermazione del lavoro dignitoso, dell’aggiornamento delle competenze per il far acquisire a tutti la pienezza della cittadinanza globale
- Piano per lo “Sviluppo Sostenibile e l’Ecologia Integrale”, per affermare un nuovo modello di sviluppo funzionale alla crescita economica e sociale, attraverso l’evoluzione celere del sistema produttivo nelle dimensioni “green” e blue economy”.
Insieme alle riforme strutturali e settoriali, segnatamente alla gestione del PNRR, andrà istituita, come per il livello nazionale, una cabina di regia coerente con il ripensamento dell’Autonomia regionale, la partecipazione territoriale/sociale e il decentramento ai Comuni, nonché l’adozione di moderni sistemi di monitoraggio e controllo dei progetti finanziati con il PNRR, con altri Fondi europei, nazionali e privati.
IL PIANO NAZIONALE DI RINASCITA E RESILIENZA PER LA SARDEGNA
L’insieme delle misure adottate dall’Unione Europea e il PNRR nazionale sono un’occasione storica e irripetibile che la Sardegna non può sprecare.
I 187 progetti presentati dall’attuale giunta regionale al governo e ai ministeri competenti, per un totale di oltre 6,5 miliardi di Euro, nel loro complesso, appaiono come il frutto di un frettoloso lavoro di recupero di vecchi progetti, richieste inevase, risposte a bisogni particolari e privo di un modello di riferimento, di una programmazione adeguata e, soprattutto, elaborati senza il coinvolgimento della società civile e dei Comuni.
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[segue]

Salviamo il pianeta Terra

giornata-terrsAcqua, dieci anni perduti
Guglielmo Ragozzino
sbilanciamoci-20
Sbilanciamoci! 28 Maggio 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Dieci anni fa il “popolo dell’acqua pubblica” vinse i due referendum del 12 e 13 giugno 2011. Un grande impegno rimasto disilluso, un’occasione mancata su cui serve fare chiarezza mentre la sete del mondo aumenta e i governanti si travestono da Greta.

Ricordo e rimpianto di una buona idea

Una premessa. Sommaria geografia dell’acqua

I numeri dell’acqua sono incerti. L’acqua presente nel pianeta Terra sarebbe di 1,4 miliardi di chilometri cubi, o di 1,385 miliardi per la precisione. Quasi tutto mare, acqua salata. L’acqua evapora per il calore del sole, dal mare e dai continenti emersi, forma vapore acqueo, nubi, per poi precipitare sotto forma di pioggia o di neve sulla terra o sull’oceano. La pioggia, la neve, il ghiaccio, dovuto al freddo, non sanno di sale. In quantità assoluta l’acqua non cambia, in un’unica Terra, solo che gli oceani – i mari – coprono la maggior parte della superficie terrestre e ricevono quindi la maggior parte della pioggia che cade e diventa salata, mischiandosi all’acqua di mare,salata, mentre la riserva solida di acqua dolce – ghiacciata – subisce l’attacco dovuto all’effetto serra con il connesso riscaldamento globale. I ghiacciai, sciolti dal calore, diventano fiumi e finiscono in mare e la loro acqua da dolce diventa salata. L’effetto è duplice: diminuisce la riserva (acqua dolce ghiacciata) e aumenta il livello dell’acqua negli oceani e nei mari , coprendo molte città e attività costiere sulle sponde.
L’acqua dolce o potabile equivale al due e mezzo, tre per cento al massimo diviso tra calotte glaciali (e ghiacciai) al settanta per cento scarso, acqua del sottosuolo al trenta per cento scarso. Le due scarsità, sommate insieme, tralasciano un altro 0,9 per cento che costituisce le acque superficiali formate da laghi, fiumi e via dicendo. Nel dettaglio, l’acqua dolce superficiale è per l’87 per cento costituita da laghi, per l’11per cento da stagni e per il 2 per cento da fiumi. Ridicola e strana la storia: è per questo 2% di uno 0,9%, di un 3% per cento di acqua che si fanno le guerre, nel corso dei secoli. In totale, è in gran parte irraggiungibile per l’uso comune l’acqua potabile, essendo ai Poli, in Antartide, in Groenlandia, sotto forma di ghiaccio. L’acqua dolce disponibile è dunque quella dei fiumi, dei laghi, delle paludi, delle nevi perenni e dei ghiacciai accessibili. Una grande riserva è nel sottosuolo, dove si è accumulata nel corso dei secoli e dei millenni.

La popolazione umana ha imparato nei millenni a raggiungere l’acqua sotterranea, con una modalità che chiameremo, in forma sommaria, pozzo. L’uso umano, per l’acqua potabile del Pianeta a disposizione dei viventi sarebbe utilizzata per il 60-70 per cento in agricoltura, per il 20-25 nelle attività di trasformazione, ricomprese tutte sotto la voce industria, mentre il resto sarebbe dedicato al consumo immediato, quello di bere, cucinare, pulire, lavare e lavarsi, ecc. Sono però suddivisioni incerte da valutare e che cambiano al cambiare delle organizzazioni sociali nel corso del tempo.

Il consumo totale di acqua dolce sarebbe stato di cinquemila chilometri cubi l’anno a fine secolo 2000, di cui la metà soltanto utilizzati direttamente e l’altra metà dispersa. Siccome Terra è un involucro chiuso, l’acqua dispersa non è perduta; non può che entrare in un circuito idrico più o meno lungo e in gran parte incontrollabile, svolto per vie traverse; basta aspettare, basta applicare tecniche adatte… però. Se i numeri correnti sono incerti, la progressione nei consumi in aumento lo è molto meno. Si è stabilito che l’aumento nella captazione di acqua potabile – il bisogno, la sete – cresce più rapidamente dell’aumento di popolazione: mentre la popolazione umana è cresciuta di quattro volte nel secolo scorso – da un miliardo e mezzo a sei miliardi di persone – e aumenterà forse di un’altra metà nel secolo presente, la domanda di acqua potabile potrebbe triplicare o forse quadruplicare nel corso di questo 22mo secolo. Si profilano dunque problemi idrici difficili da risolvere per gli anni avvenire. L’acqua non s’inventa: occorre far buon uso di quella che c’è. Mitigazione, adattamento o che altro?

Mitigare qui vuol dire ridurre il carico dell’effetto serra che agisce sullo scioglimento dei ghiacci ciò che in ultimo termine significa il cambiamento di stato: dall’acqua gelata e senza sale in acqua più calda, marina e salata; Lo scioglimento dei ghiacci di Antartide e Groenlandia avrebbe l’effetto. prima indicato, di far crescere il livello degli oceani e dei mari interni, sommergendo molte città e attività umane costruite presso i mari. Per mitigare in questo caso si deve sviluppare una serie di attività complesse e costose. Piantare alberi, riducendo-riassorbendo l’emissione di anidride carbonica che è alla base dell’effetto serra. Si può cercare di trattenere l’acqua dei fiumi, allargando i bacini e i depositi naturali di acqua dolce. Un riassunto accurato di quel che occorre fare in termini di adattamento lo si trova ne libro di Bill Gates “Clima – Come evitare un disastro”. Un obiettivo facile da raccontare e difficile da perseguire; più difficile ancora è però cambiare le nostre abitudini, il nostro modo di vivere, di mangiare, di correre dietro ai piaceri più leciti, cambiando le cose, da buone cose dolci in cose passabilmente salate. Servirà un industria che funzioni anche con un raffreddamento salato cioè usando acqua che svolga la funzione prevista sui macchinari non essendo necessariamente potabile, nel tessile, nell’alimentare, nel settore chimico, nel raffreddamento delle centrali elettriche e così via. Poi c’è l’agricoltura. Sembra che in Israele, nel secolo scorso abbiano provato a fa crescere pomodori irrorando le piante con acqua discretamente salata: un buon risultato dal punto di vista della coltivazione e uno pessimo badando ai sapori. Ma, “C’est ne que un début, continuons à manger“.

Le coltivazioni possono sopportare modifiche che prevedano un uso ridotto d’inaffiamento di pioggia artificiale con un uso sapiente di semenze e di selezione di prodotti, di luoghi, di soluzioni temporali che assumano anche o soprattutto questo tema del risparmio di acqua dolce. C’è inoltre la possibilità di mettere da parte un’agricoltura troppo dispendiosa in termini di irrigazione preferibile a favore di altre produzioni meno assetate o più secche.

L’adattamento riguarda poi la possibilità di riutilizzare l’acqua dolce sporcata nell’uso abituale. Oggi non esiste unsa tecnica diffusa, disponibile per riutilizzare a breve giro l’acqua inquinata per l’uso civile o per irrigare i campi e innaffiare i giardini; oggi si manda tutto al fiume, quindi al mare l’acqua usata, tanto per togliersela di torno. Anche il fiume, però fa parte della nostra geografia; la sua acqua è la nostra acqua. Questo è valido in generale, a livello di Terra, ma vale ancor prima a livello di territorio. Forse si potrebbe fare di meglio.

Dieci anni dopo

Scadono dieci anni dal referendum italiano sull’acqua. Come molti ricorderanno i referendum che si occupavano di acqua erano in realtà due e inoltre in quell’occasione (12-13 giugno 2011) si votava anche sul nucleare e sulla responsabilità dei ministri. I temi sull’acqua rispondevano a una convinzione diffusa, da ratificare con la legge popolare. L’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce. Come il solito, il voto ammesso da Cassazione e Corte costituzionale non era su affermazioni così sintetiche e precise, ma su particolarità della legislazione precedente che al tempo stesso potevano essere attaccate con un referendum abrogativo rendendo impraticabile (forse) il permesso-divieto della legge. In realtà i titolari dei diritti e delle leggi – governi, parlamenti – non amano che la gente comune si immischi con le loro pratiche e le loro scelte, complicate e spesso astruse, con intenti che restano coperti o addirittura segreti. Così avviene talvolta che una scelta precisa come l’abolizione del Ministero dell’agricoltura, chiesta con un referendum e fatta propria con un voto di maggioranza e da molti milioni di persone, contro una quasi inesistente opposizione, si trasformi inopinatamente nella nascita del Ministero per le Produzioni agricole. Per essere precisi: con effetto del referendum del 18-19 aprile 1993, il MAF Ministero per l’agricoltura e le foreste, antichissimo ministero dei tempi sabaudi, abolito dal refendum è rinato per effetto della legge di applicazione 491-1993 e si è trasformato in Miraaf, Ministero per le risorse agricole alimentari e forestali.
I referendum sull’acqua bene comune andavano a colpire l’articolo 23bis della legge 133 del 2009 (“Legge Ronchi“) che stabiliva che i gestori dei servizi locali a rilevanza economica, come il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici e lo smaltimento dei rifiuti, dovessero essere scelti dall’ente locale attraverso una gara d’appalto, riducendo la possibilità dell’affidamento diretto a una società pubblica cosiddetta “in house“, ossia una società con gestione aziendale autonoma ma capitale interamente pubblico e partecipata dall’ente locale di riferimento. L’altro referendum idrico puntava a colpire il comma 1 dell’articolo 154 della legge152 del 2006 (“Testo unico ambientale“), che stabiliva come nel costo finale dei servizi idrici che il “cittadino-utente” pagava in bolletta dovesse essere inclusa la remunerazione del capitale investito, fissata per legge al 7%.

Il referendum “contro la privatizzazione dell’acqua” nasce da una grande mobilitazione popolare, un vero record di partecipazione: 1 milione e 400 mila firme (ne bastavano 500 mila) furono raccolte da marzo a luglio 2010 dai comitati promotori. Dire “privatizzazione dell’acqua” è però fuorviante: come si è visto, uno degli articoli di legge oggetto dei referendum si riferisce a tutti i servizi pubblici di rilevanza economica, ossia quelli per i quali sono previsti una bolletta o un biglietto a prezzo controllato o un ticket. Rientrano in questa nozione di servizi pubblici di rilevanza economica l’acqua, i trasporti pubblici, lo smaltimento dei rifiuti, la refezione scolastica e altri ancora, in contrapposizione ad altri servizi, sociali e assistenziali, che paghiamo invece con le tasse.

È giusto che servizi essenziali di pubblica utilità possano essere gestiti anche da aziende private anziché esclusivamente da consorzi o enti pubblici locali? E se anche venisse abolita – col secondo quesito referendario – la remunerazione del capitale investito, ossia quel 7% di guadagno fissato per legge per chi investe nei servizi idrici, vuol dire che le nostre bollette dell’acqua saranno meno care? O il servizio sarebbe meno efficiente? Con sprechi ulteriori?

Per precisare il significato legale dei referendum torneremo rapidamente alla loro grammatica, servendoci delle spiegazioni di allora:

Quesito referendario n° 1: “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica” .
Il quesito chiede di abrogare o confermare l’articolo 23bis della legge 133 del 2009 (“Legge Ronchi”) che stabilisce che i gestori dei servizi locali a rilevanza economica, come il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici e lo smaltimento dei rifiuti, debbano essere scelti dall’ente locale attraverso una gara d’appalto, riducendo la possibilità dell’affidamento diretto a una società pubblica cosiddetta in house, ossia una società con gestione aziendale autonoma ma capitale interamente pubblico e partecipata dall’ente locale di riferimento.
L’affidamento diretto è tecnicamente ancora possibile, ma deve essere esplicitamente motivato dall’ente locale; l’articolo impone anche che tutte le attuali gestioni pubbliche in house cessino entro dicembre 2011 a meno che non selezionino tramite gara un partner privato a cui affidare non meno del 40% del capitale.
Ai gestori a capitale misto pubblico e privato quotati in borsa l’articolo impone che la quota pubblica massima venga ridotta al 40% entro giugno 2013 e al 30% entro dicembre 2015, a meno che non decidano di partecipare a una gara per un nuovo affidamento del servizio che già gestiscono.

Quesito referendario n. 2: “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito”
Il quesito chiede di abrogare o confermare il comma 1 dell’articolo 154 della legge152 del 2006 (“Testo unico ambientale”), che stabilisce che nel costo finale dei servizi idrici che il “cittadino-utente” paga in bolletta debba essere inclusa la remunerazione del capitale investito, fissata per legge al 7%.
La “remunerazione” comprende sia gli interessi di eventuali prestiti chiesti a banche o istituzioni pubbliche sia il guadagno d’impresa.

Lo straordinario successo popolare dei referendum non può essere spiegato solo con la campagna di propaganda e di raccolta dei consensi. C’è dell’altro, se si vuole riflettere su quelle esaltanti giornate, e comprenderne il significato. “Fukushima” da una parte, l’antipatia per i ministri dall’altra, hanno contribuito al successo elettorale nel referendum sull’acqua. Se ben ricordo, il pubblico votante e le persone che prima ancora avevano fatto campagna per raccogliere i voti, erano spinti anche dalla preoccupazione nucleare – il caso della centrale giapponese colpita dallo tsunami – che era un argomento decisivo contro quel modello energetico troppo dispotico – e qui c’era l’occasione puntuale per respingere il pericolo. La possibilità di mettere sotto accusa i ministri – Berlusconi e i suoi – poco stimati o invisi a sinistra e più in generale nella popolazione, era di nuovo un modo franco e aperto per dire “Basta!” mediante una legge per di più popolare, e fare così giustizia di tutti gli abusi e la corruzione, oltretutto cogliendo un’occasione irripetibile. La questione politica centrale: “l’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce“, aveva quindi la fortuna di trovare i milioni di voti, liberi voti, di coloro che preoccupati per il pericolo nucleare, indignati contro i privilegi e i soprusi dei politici si stavano muovendo insieme. Diciamola tutta: per l’acqua soltanto non sarebbero andati in così tanti – a metà giugno! – a votare.

Il 12-13 giugno va al voto il 57 per cento degli aventi diritto, compresi gli “oriundi“, chiamando così gli italiani con residenza all’estero, cioè quelli che avrebbero dovuto o potuto votare all’estero. Il 95% dei votanti è per il sì, con poche differenze da un referendum all’altro. Viene in mente Marco Pannella, che per decenni ha sostenuto l’opportunità di proporre un buon numero di referendum in contemporanea, cercando di spiegare i vantaggi di tale condotta: sostenere un referendum con vari altri e raggiungere così il risultato per tutti; con il rischio però di perdere tutto per l’antagonismo organizzato nei confronti di uno soltanto (tipo referendum sulla caccia che nel giugno 1990 urtando qualche intransigenza particolare non ottennero il quorum, sprecando il 92% dei sì ottenuti). In altre parole, in altro contesto, una forza politica che volesse assumere democraticamente i poteri, non potrebbe limitarsi a un’unica proposta, per dirompente che fosse, ma dovrebbe preferire di presentarne un complesso per consentire al pubblico di vedere, di sperare in un grande cambiamento; di farsi un’idea della politica complessiva dei ”nuovi”. In effetti il movimento 5stelle, scelse, a fianco o dietro la prima stella – l’acqua per tutti – altre quattro stelle che coprivano altri decisivi spazi della politica (ambiente, trasporti, connettività, sviluppo). E raccolse molti voti.

La delusione seguita all’esito vittorioso del referendum è stata grande; Se il referendum fosse colato a picco ci si sarebbe fatta una ragione. Il principio “l’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce” è stato invece subito disatteso dalle autorità che avrebbero dovuto rispettarlo e farlo rispettare. Il risultato vero è stato che alcune grandi società semipubbliche, cresciute in lunghi anni per gestire l’acqua nelle città e nei comuni minori, si sono ancora ingrandite, fondendosi e scalandosi tra di loro e hanno fatto giochi finanziari di ogni tipo, appoggiandosi alle città maggiori e facendosi sponsorizzare in fine da esse , con amministrazioni ansiose di avere denaro da spartire e spendere per quadrare i bilanci e premiare funzionari fedeli e di ricavarle dalla Borsa, utilizzando (o trascurando) l’esito del referendum. L’idea era di guadagnare con l’acqua e ancora di più con le azioni da vendere al pubblico, garantendo un dividendo azionario più ancora di una graditissima sicurezza idrica. Prevalse così una concezione diversa, opposta, del significato sociale e politico dell’acqua, al di là delle semplici questioni ambientali. Le società vincenti hanno ripetuto: l’acqua costa e noi ci impegniamo a darla a tutti, ciò che è assai complicato; va pagata al giusto prezzo e il giusto prezzo lo stabiliamo noi che siamo ingegneri e amministratori. Certo, c’è la povera gente e noi ne teniamo conto. Chi non ha di che pagare – al di là dei sotterfugi e degli inganni che scopriremo – avrà il necessario per sopravvivere a carico della cassa generale. E ancora: non è vero che l’acqua è di tutti, questa è una frase fatta che serve a far sognare i bambini. Noi che siamo gente capace, sappiamo che in verità l’acqua è di nessuno (res nullius, come dicevano gli antichi) e l’usa chi se la prende, la tratta, la paga in qualche forma, la valorizza, la distribuisce e dopo di fatto ne fa quello che vuole – forse la sanifica, forse no – con il limite di non costringere nessuno alla sete.

La delusione è stata grande. Anche fuori d’Italia. La nostra Italia era il primo grande paese che risolveva il problema idrico con un modello democratico di soluzione. Tutti gli altri paesi, ricchi e meno ricchi, avrebbero studiato, imitato, combattuto per l’acqua all’italiana, cercato di copiare; erano pronti a farlo. L’Italia era capace di cambiare, di ridare l’acqua al popolo, di farne una ricchezza abile, sicura, generosa. La decisione, referendaria, con un così formidabile consenso, spingeva tutti gli altri popoli, ricchi e meno ricchi che fossero, a provare anche loro. Da più parti ci si aspettava di imparare qualcosa dall’esperienza italiana. Dal risultato del referendum sarebbe uscito un progetto innovativo, buone politiche per tutte le borse, per tutte le latitudini…. Il risultato trionfale, così atteso, si trasformò ben presto nel suo contrario: a darsi da fare per fare lo stesso furono in un numero ridotto di movimenti e popoli assetati. Si disse che al solito le grandi compagnie multinazionali dell’acqua avevano stretto i freni. Avevano dettato i comportamenti per tutti. Esse erano più forti di noi; a maggior ragione più forti di tutti. Così il caso del nostro referendum, di cui eravamo tanto orgogliosi, apparve ben presto come uno scherzo, una recita da parte di quei soliti commedianti degli italiani…

Non finisce qui
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Che succede?

c3dem_banner_04IL CREDENTE IN POLITICA. ISRAELE: DUE CITTADINANZE PER DUE POPOLI. SALVINI FUORI STRADA
16 Maggio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Pierluigi Castagnetti, “Il credente in politica? Un uomo del suo tempo” (connessioni.org). ISRAELE/PALESTINA: Pierbattista Pizzaballa, “Questa politica del disprezzo causa una violenza mai vista” (intervista a Avvenire). Maurizio Molinari, “Le tre novità del conflitto israelo-palestinese” (Repubblica). Donatella Di Cesare, “Due cittadinanze per due popoli” (la Stampa). MIGRANTI: Filippo Grandi (Unhcr), “All’Europa serve coraggio per scegliere sul tema dei migranti” (Domani). [segue]

PNRR sotto la lente del Forum delle disuguaglianze e diversità

logo-pnrr-aladinlogo-forumdd-x74988 COSA PENSIAMO DEL PIANO INVIATO ALL’UE E “CHE FARE ORA”?
1. Gli spazi per fare la cosa giusta e un requisito: monitoraggio aperto
11 maggio 2021 su ForumDD.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (235,1 miliardi di euro, di cui 204,5 di Next Generation EU) è all’attenzione formale della Commissione Europea. Dopo avere lavorato dal luglio 2020 per orientarne le scelte, per noi ForumDD, come per tanti altri, è arrivato il momento di prendere atto che questo è quanto le nostre istituzioni sono in grado di fare. Sull’esito pesano l’infelice avvio – a partire dalla raccolta dei progetti esistenti – e la scelta, immodificata da un governo all’altro, di assoluta chiusura al dialogo sociale. Pesa, da ultimo, anche la scelta della classe dirigente europea di anteporre l’obiettivo di “chiudere” i Piani alla presenza di tutti gli elementi di garanzia per il raggiungimento degli obiettivi dichiarati. E allora, se questo è “ciò che passa il convento”, ci sono tre cose da fare: apprezzare alcuni progressi compiuti; segnalare i seri limiti (molti già presenti in gennaio), osando augurarci che alcuni di essi siano superati nel confronto con la Commissione Europea; e poi, comunque, a Piano dato, individuare gli spazi che abbiamo, come società attiva e ricerca, per cavarne il massimo in termini di sviluppo giusto e sostenibile, di giustizia sociale e ambientale, insomma, il nostro “che fare” dei prossimi mesi.
Queste tre cose proviamo a fare in queste note. Lo facciamo, nonostante la valutazione sia resa difficile dal fatto che il Governo non ha ancora reso pubblici al Paese e al Parlamento le informazioni su “Targets e Milestones”, che immaginiamo la Commissione Europea abbia, visto che sono parte integrante del Piano da essa richiesto, e che circolano da poco in modo informale e non facilmente intellegibile. Ma prima un’osservazione generale. [segue]

PNRR in Sardegna. La questione energetica tra scelte obbligate e nuove prospettive

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sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola

La questione energetica dell’Isola nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Il dibattito concernente il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) sta evidenziando in Sardegna l’assoluta incapacità programmatoria della Giunta regionale e la sostanziale mancanza di una prospettiva di sviluppo dell’economia regionale, che contraddistingue l’apparato politico dell’Isola.
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Oggi mercoledì 21 aprile 2021

GLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2aladin-logonge-cover-1lampadadialadmicromicro13democraziaoggi-loghettogf-02
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——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni—————————
PNRR. È in gioco una questione di democrazia
21 Aprile 2021
Alfiero Grandi su Democraziaoggi.
Pubblichiamo la relazione introduttiva al convegno sulla transizione ecologica indetto, fra gli altri, dal Coordinamento per la democrazia costituzionale.
Tre Associazioni hanno deciso di sfidare il governo ad essere coerente con le affermazioni di Draghi alle Camere sulla transizione ecologica al momento dell’insediamento. Sfidiamo il Governo ad avere coraggio nelle scelte, ad ascoltare i cittadini […]
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Beppe, stavolta avresti fatto bene a star zitto!
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Ho sempre seguito Grillo con simpatia perché è un uomo intelligente e spiazzante. Fuori dalle righe, e perciò anche se non sempre condivido le sue parole, le trovo sempre interessanti. E’ certamente una delle persone che più ha movimentato la mortifera scena politica italiana. I suoi critici spesso neanche sanno da dove […]
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L’esemplare vicenda di uno dei tanti giovani sardi “capaci, meritevoli e privi di mezzi” [di Luigi Sotgiu]
By sardegnasoprattutto / 20 aprile 2021 / Culture /
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careAlla fine degli anni ’60 il paese di Cuglieri, un tempo tra le principali “città dell’olio” di oliva, è già avviato verso una lunga decadenza economica ed ha ben poche prospettive da offrire ai giovani che, al pari di tanti altri sardi e meridionali, iniziano ad emigrare verso le città industriali del nord. Nel 1969 anche Antonio Giallara, all’età di 18 anni, segue la strada avviata da altri parenti e amici: arriva a Torino, ha una prima esperienza lavorativa all’Iveco, la fabbrica dei motori per camion e dopo parte per il servizio militare. Al ritorno frequenta per un anno la scuola Fiat e approda infine nel reparto carrozzeria della Mirafiori. Queste notizie le apprendiamo dal libro “Care compagne, cari compagni, Storie di comunisti italiani”, Strisciarossa Edizioni. Si tratta di tredici storie di militanza nel PCI raccontate da altrettanti giornalisti. La prima storia, scritta da Bruno Ugolini, già giornalista dell’Unità, si intitola “Antonio Giallara. Il giovane leader di Mirafiori anni 70. Quando si ragionava con il Noi”. [segue]

Un grande sardo. Ricordando Mario Melis nella prossima ricorrenza dei 100 anni dalla sua nascita

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Il 17 u.s. si è celebrato il centenario della Fondazione del Partito Sardo d’Azione. Il 10 giugno di questo anno celebreremo la ricorrenza dei 100 anni dalla nascita di Mario Melis, un grande militante e dirigente di quel Partito, grande sardo, ricordato particolarmente per essere stato uno dei più prestigiosi presidenti della Regione Autonoma della Sardegna.
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In questi giorni è uscito un libro che ne ricorda la personalità, scritto dal giornalista Anthony Muroni. Il libro viene in questi giorni presentato in diverse occasioni via webinar. Tra queste quella che si terrà venerdì 23 c.m., promossa dalla Scuola di cultura politica Francesco Cocco. Aladinpensiero ha dedicato spesso spazio a ricordo di Mario Melis. Vogliamo continuare a dare rilievo alla sua attività politica al servizio dei sardi e della Sardegna, soprattutto per l’utilità che ha sicuramente oggi nel confronto delle sue idee e della sua pratica di coerente sardista con l’attuale deriva politica del suo Partito, che ci auguriamo trovi nel tempo che viene una decisa inversione per tornare nell’alveo della sua migliore tradizione democratica
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Per ricordare Mario Melis , ripubblichiamo ancora una volta un editoriale di Aladinews dell’8 maggio 2016, che crediamo dia conto, seppur in modo semplice, della statura del grande uomo politico sardo.
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Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo
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Giovanni Maria Angioy Memoriale 2«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy”. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1).
Mario Melis 1E’ significativo che l’unico uomo politico contemporaneo individuato come possibile autore di una così bella frase, decisamente critica nei confronti della classe dirigente dell’Isola (e quindi autocritica) e tuttavia colma di sviluppi positivi nella misura in cui si potesse superare tale pesante criticità, sia stato Mario Melis,, leader politico sardista di lungo corso, il quale fu anche presidente della Regione a capo di una compagine di centro-sinistra nel 1982 e di nuovo dal 1984 al 1989. Evidentemente la sua figura di statista resiste positivamente nel ricordo di molti sardi. E questo è bene perché Mario Melis tuttora rappresenta un buon esempio per le caratteristiche che deve possedere un personaggio politico nei posti guida della nostra Regione: onestà, competenza (soprattutto politica più che tecnica), senso delle Istituzioni, passione e impegno per i diritti del popolo sardo. Caratteristiche che deve possedere non solo il vertice politico, ma ciascuno dei rappresentanti del popolo nelle Istituzioni. Aggiungerei che tali caratteristiche dovrebbero essere comuni a tutti gli esponenti della classe dirigente nella sua accezione più ampia, che insieme con la classe politica comprende quella del mondo del lavoro e dell’impresa, così come della società civile e religiosa.
Oggi al riguardo non siamo messi proprio bene. Dobbiamo provvedere. Come? Procedendo al rinnovo dell’attuale classe dirigente in tutti i settori della vita sociale, dando spazio appunto all’onestà, alla capacità tecnica e politica, al senso delle organizzazioni che si rappresentano, alla passione e all’impegno rispetto alle missioni da compiere.
Compito arduo ma imprescindibile.
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(1) Sappiamo come andò a finire la storia: i francesi si guardarono bene dall’intervenire, perlomeno in Sardegna – contrariamente a quanto fecero in Piemonte – per la quale tennero fede all’Armistizio di Cherasco (28 aprile 1796) e al successivo Trattato di Parigi (15 maggio 1796) che, sia pure con termini pesantissimi per i sabaudi, consentì loro di mantenere costantemente e definitivamente il potere sull’Isola.
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[Mario Melis, su wikipedia] Sulle orme del fratello Giovanni Battista (detto Titino), militò fin da giovanissimo nel Partito Sardo d’Azione (P.S.d’AZ). Quando Mario era ancora un bambino, il fratello fu arrestato a Milano insieme a Lelio Basso, Ugo La Malfa ed altri antifascisti nelle retate disposte dopo l’attentato del 12 aprile 1928 in zona Fiera[1].
È stato sindaco di Oliena (NU), e successivamente consigliere e assessore provinciale di Nuoro. Eletto consigliere regionale nella VI, VIII e IX legislatura, è stato assessore regionale degli enti locali, personale e affari generali (gennaio-novembre 1973) e della difesa dell’ambiente (1980-1982), e successivamente presidente della Regione Sardegna nel 1982 e di nuovo dal 1984 al 1989. Ha ottenuto due voti alle elezione del Presidente della Repubblica del 1985 e del 1992.
Senatore nella VII legislatura e deputato nella IX, è divenuto eurodeputato dal 1989 al 1994.
Fece attività politica fino agli ultimi anni, difendendo in particolare il posizionamento del sardismo nell’area di sinistra durante le elezioni regionali del 1999, in cui tanto il candidato presidente di centro-sinistra quanto il candidato presidente di centro-destra furono sostenuti da esponenti sardisti.
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Una lettera datata 6 dicembre 2018, che mantiene intatta validità.
Quando a guidare il Psd’az c’era Mario Melis, un grande sardo. Laura Melis, figlia di Mario, a Solinas: “grave non avere memoria della propria storia”.

“Mi chiamo Laura Melis, figlia di Mario, esponente del Partito Sardo d’Azione, nelle cui liste è stato più volte eletto, avendo iniziato a fare politica da ragazzo. In questi ultimi anni e, precisamente, dopo che l’allora segretario del Partito Trincas compì il “bel gesto” di consegnare la bandiera dei quattro mori nelle mani di Silvio Berlusconi, mi sono sentita ripetere più e più volte le stesse frasi: «Tuo padre si starà rivoltando nella tomba», «Chissà cosa direbbe/farebbe tuo padre vedendo dove sta andando il Partito Sardo d’Azione».
Credo che, viste le ultime decisioni che il Partito ha preso, sia giunto il momento di dire una cosa: mio padre quello che pensava l’ha detto chiaramente più volte in vita. Non ci possono essere fraintendimenti a riguardo. È arrivato a organizzare un convegno sul Federalismo nei primi anni ’90, invitandovi l’onorevole Umberto Bossi, per chiarire e marcare le differenze di concezione e di finalità che fra le due forze, pur entrambe federaliste, vi erano. È ovvio che non sarebbe stato d’accordo riguardo a quest’ultima alleanza con la Lega.
Ho troppo rispetto per il pensiero che mio padre ha espresso per permettermi di supporre altri scenari e altri messaggi da parte sua. Ciò che doveva e voleva dire l’ha detto in vita e di conseguenza ha agito, con coerenza estrema. Infine, vorrei fare un’ultima considerazione in merito all’intervista all’onorevole Solinas pubblicata su La Nuova Sardegna del 2 dicembre.
È stupefacente per me (ma sono di parte!) la rapidità con cui l’onorevole liquida le alleanze avvenute nel passato tra il Partito Sardo e le forze di sinistra, relegandole a scelte sbagliate, direi suicide. C’è da chiedersi se consideri un errore l’elezione del ’76 al Senato in alleanza con il Partito Comunista che portò alla presentazione della proposta di legge sulla zona franca. O se considera fallimentare l’elezione del ’79 che portò Mario Melis a rivestire il ruolo di assessore Regionale all’Ambiente. O infine, se considera fallimentare l’elezione di 12 consiglieri regionali nell’84 che portò all’elezione del primo Presidente della Giunta sardista.
La mancanza di generosità intellettuale è un limite grave. Come è grave non avere memoria della propria storia perché porta, ahimè, alla perdita della propria identità. È sempre bene ricordare dove sono piantate le proprie radici”.

- L’illustrazione in testa è tratta dal sito ufficiale di Mario Melis, gestito dalla sua famiglia: http://www.mariomelis.eu
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IL PRECEDENTE EDITORIALE
legge-eletttorale-sarda-la-peggiore2021-04-16-alle-22-11-16
Più partecipazione? Subito cambiare la legge elettorale sarda! Tre anni passano in fretta…

I 100 anni di storia del Partito sardo: 1946, quando propose uno Statuto federalista

E se il PSD’Az, per ricordare e festeggiare il suo centesimo anniversario, avesse un sussulto, culturale e politico, riprendendo il suo vecchio Progetto di Statuto di 75 anni fa?

di Francesco Casula

il-solcoIl 10 gennaio 1946 il Partito sardo d’azione pubblica su “Il Solco” il proprio Progetto di Statuto, che riprende alcune parti della precedente bozza di pr-gonpinna Gonario Pinna in cui si rifletteva la formazione repubblicana e azionista e lo spessore culturale del suo estensore, inquadrando la Sardegna in una repubblica federale, esplicitamente basata su principi di democrazia, di uguaglianza e di partecipazione.
Particolarmente ampie e corpose nel Progetto risultano le competenze legislative “esclusive”: fra cui Istruzione, Lavoro, Trasporti, Agricoltura, Industria, Commercio nell’interno e con l’estero, Finanze, Igiene e sanità, Pubblica sicurezza, Previdenza sociale, Affari interni, Servizi postelegrafonici. Lavori pubblici, Determinazione delle Circoscrizioni giudiziarie.
Come si può notare, siamo al limite dell’indipendenza!
emilio-lussuLa struttura amministrativa della Regione è organizzata attraverso delle circoscrizioni o distretti, che sostituiscono le Province: l’abolizione di queste con il relativo Prefetto, storicamente la figura più centralista e statalista che conosciamo, è un ricorrente obiettivo di Emilio Lussu e dei Sardisti.
photo-2021-04-13-17-56-31I Comuni sono dotati di ampie autonomie ed è prevista un’autonomia doganale che sottrae la Sardegna al regime doganale dello Stato.
L’accoglienza da parte di tutti i Partiti italiani sarà del tutto negativa: il PCI, da sempre antifederalista lo osteggia apertamente; la DC è più possibilista ma ritiene che il federalismo non sia praticabile in quanto oramai avversato dagli orientamenti di tutte le forze politiche.
Lo schema di Statuto che prevarrà, si ispirerà a quello elaborato dal democristiano Venturino Castaldi. [segue]

DOCUMENTAZIONE. I 21 punti di Letta

pd-logoPD ENRICO LETTA PARTITO DEMOCRATICO
Ecco il Vademecum dei 21 punti
[segue]

Etica&Impresa

64c78141-d560-45c4-a33c-f79fe76df27aDalla responsabilità sociale dell’impresa all’eticonomia
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Salvatore Vento – 21 Marzo 2021 by c3dem_admin | su C3dem

Nell’ultimo ventennio il tema della responsabilità sociale dell’impresa, in italiano Rsi e in inglese Csr (Corporate social responsability), è uscito dall’insegnamento nei dipartimenti universitari del mondo anglosassone per diventare oggetto di dibattito pubblico. I più accreditati Master in Business Administration prevedono corsi specifici. La pandemia del coronavirus sollecita, con ancora più forza, comportamenti responsabili a tutti i livelli e pone all’ordine del giorno la messa in discussione del modello di sviluppo socioeconomico imperante.

Nel 2001 l’Unione Europea aveva emanato due appositi documenti: il Libro verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, seguito l’anno seguente da una Comunicazione della stessa Commissione. Nel Libro verde, la Rsi veniva definita come l’integrazione volontaria delle problematiche sociali ed ecologiche nelle operazioni commerciali e nei rapporti delle imprese con le parti interessate.

Per attuare i principi europei in Italia tali funzioni rientravano nelle competenze del Ministero del lavoro. Anche le Regioni, a partire da quella toscana, adottavano programmi di Rsi: finanziamenti alle Pmi che intendevano procedere alla certificazione Sa 8000, che è uno standard internazionale certificato attraverso un sistema di verifica di una parte terza. L’Italia è il paese col maggior numero di aziende certificate del mondo (pari al 33%). Quasi il 70% delle aziende certificate rientrano tra le Pmi (1-250 addetti).

Tutte le banche ormai sono in grado di offrire fondi d’investimento che contengono azioni o obbligazioni di aziende con certificazione di comportamenti etici. I fondi che investono in società con una politica ESG (Environmental, Social, Governance) forte hanno avuto buoni risultati. Etica Sgr, società di gestione del risparmio (Sgr), propone esclusivamente fondi comuni di investimento sostenibili e responsabili e ha lo scopo di “rappresentare i valori della finanza etica nei mercati finanziari, sensibilizzando il pubblico e gli operatori finanziari nei confronti degli investimenti socialmente responsabili e della responsabilità sociale d’impresa”. Il patrimonio gestito da Etica Sgr ammonta a 5 miliardi di euro depositati da 260 mila clienti. Secondo l’analisi della Bce, nella zona euro gli asset dei fondi ESG sono aumentati del 170% dal 2015. Nello stesso periodo il valore delle obbligazioni verdi in circolazione nell’area euro è aumentato di sette volte. Famiglie, assicurazioni e fondi pensione detengono oltre il 60% dei fondi ESG dell’eurozona.

Anche nella filiera della moda italiana si è posta attenzione sui comportamenti etici. La sostenibilità non deve essere solo ambientale, ma anche sociale, ha dichiarato Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, aggiungendo che la sfida della sostenibilità sociale e del giusto salario per chi lavora nella moda è fondamentale e ha un pari peso con la sostenibilità ambientale. Esistono diverse realtà virtuose che producono eccellenza e lusso, rispettando ambiente e persone. E’ ampiamente noto il caso di Brunello Cucinelli, in particolare sul tema dell’etica del lavoro, oppure quello di Tiziano Guardini sulla sostenibilità dei materiali usati nei capi d’abbigliamento. Interessante è anche l’esperienza di collaborazione di Loro Piana con gli allevatori di capra cashmire Hircus della Cina e della Mongolia, tesa a tutelare questo tipo di allevamento tradizionale e a proteggere le comunità locali.

All’ultimo World Economic Forum di Davos, che ha celebrato i cinquant’anni d’incontri, è stato ribadito che lo scopo dell’impresa non è solo il profitto, ma anche la protezione dell’ambiente, la giustizia sociale, e la promozione di un benessere per tutta la comunità. Il “capitalismo shareholder” degli azionisti si dovrà trasformare in “capitalismo stakeholder” di tutti i portatori di interesse (imprenditori, lavoratori, fornitori, clienti, comunità).

La rivoluzione verde e la transizione ecologica previste dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), con una dotazione di 69 miliardi di euro, deve ora rappresentare una grande occasione per una pratica attuazione, in Italia, di questi principi.

Il bisogno di etica nell’impresa, nell’economia e nella società ha portato, negli ultimi vent’anni, alla nascita di movimenti di contestazione, ingiustamente definiti “no global”. Le manifestazioni cominciano a Seattle (Usa) nel 1999 e sono diretti contro la conferenza del Wto (Conferenza Mondiale per il commercio). Proseguono nel 2001 contro il G8 a Genova. Riprendono col movimento “Occupy Wall Street”. Nel 2011, al referendum sull’acqua pubblica, in Italia ha partecipato il 57% degli elettori e oltre il 95% ha detto che l’acqua è un bene comune. Più che un tempo di rivoluzioni dirette da soggetti sociali specifici, il nostro è il tempo di rivolte continue, come scrive Donatella Di Cesare (Il tempo della rivolta, Bollati Boringheri, 2020): una “pratica d’irruzione” contro ingiustizie e iniquità, che ha un “potere destituente” nei confronti delle autorità che contesta. “Mi rivolto, dunque sono”, diceva Albert Camus. A questo punto, però bisognerebbe fare un’analisi sui risultati di queste rivolte, risultati che sono molto condizionati, e non potrebbe essere diversamente, dalle dinamiche sociali in cui nascono. Tra le recenti rivolte che hanno avuto un richiamo internazionale si possono ricordare “Black lives matter”, contro il razzismo sempre emergente negli Stati Uniti, le proteste per la democrazia a Hong Kong e quelle in corso in questi giorni contro la dittatura dei militari in Birmania.

Nel 2012 Joseph Stiglitz scrisse un libro intitolato Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro. Negli Stati Uniti, negli anni del boom precedenti la crisi finanziaria del 2008, l’1% dei cittadini si è impadronito di più del 65% dei guadagni del reddito nazionale totale; nel 2010, a fronte di una leggera ripresa, l’1% guadagnava il 93% del reddito aggiunto.
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Oggi la lotta alle disuguaglianze è diventato un argomento di dibattito pubblico, e in molte città sono nati gruppi di discussione e di proposte. A livello nazionale c’è, per esempio, il “Forum Disuguaglianze diversità”, presieduto da Fabrizio Barca. E nel 2016 è stata costituita l’ASVIS-Agenzia italiana per lo sviluppo sostenibile, presidente Pierluigi Stefanini, portavoce Enrico Giovannini (oggi ministro del governo Draghi); quest’agenzia si richiama all’Agenda ONU 2030, approvata nel settembre 2015 dall’Assemblea generale dell’Onu, che propone 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale da raggiungere entro il 2030.
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Nel 2019 il premio Nobel per l’economia è stato assegnato congiuntamente agli economisti Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer per l’approccio sperimentale nella lotta alla povertà globale. Banerjee e Duflo, marito e moglie, insegnano al Massachusetts Institute of Technology, mentre Kramer è docente ad Harvard. Duflo è la seconda donna a vincere il riconoscimento in questa categoria. Nell’annunciare i vincitori dell’edizione 2019, il Comitato per i Nobel sottolinea come i risultati delle ricerche dei tre vincitori “hanno migliorato enormemente la nostra capacità di lottare in concreto contro la povertà”. In particolare, “come risultato di uno dei loro studi, più di 5 milioni di ragazzi indiani hanno beneficiato di programmi scolastici di tutoraggio correttivo”. Essi “hanno introdotto un nuovo approccio per ottenere risposte affidabili sui modi migliori per combattere la povertà globale”.

Secondo indagini della Banca d’Italia, a fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 9.743 miliardi di euro, 8 volte il loro reddito, di cui oltre la metà derivante da immobili. Il Pil nel 2019 ammontava a 1.800 miliardi di euro, mentre il debito pubblico raggiungeva i 2.409 miliardi di euro. Il reddito risparmiato è oggi ai massimi storici, circa il 12,6% del reddito (dati Intesa San Paolo, Centro Luigi Einaudi) e i depositi bancari nei conti correnti arrivano a 1.200 miliardi. Il risparmio individuale, se ben investito, può senz’altro contribuire al bene collettivo.

Con l’elezione di Papa Francesco (13 marzo 2013) tutti questi temi hanno assunto un respiro più ampio, una dimensione universale, che mettono in discussione l’attuale modello di sviluppo e la mercificazione delle relazioni umane (“Laudato si’”, “Fratelli tutti”). Del resto già negli anni ’70 il movimento sindacale poneva alla discussione pubblica l’interrogativo “cosa, come, dove, produrre”. In diverse città nascono gruppi e comunità sotto il nome di “Laudato si’” per cercare di mettere in pratica gli enunciati dell’enciclica. I giovani economisti, ricercatori e attivisti sollecitati dalla economia di Francesco nel documento finale del 21 novembre 2020 hanno indicato in 12 punti le loro proposte. Il tema della custodia dei beni comuni (specialmente quelli globali quali l’atmosfera, le foreste, gli oceani, la terra, le risorse naturali, gli ecosistemi tutti, la biodiversità, le sementi) dovrà essere posto al centro delle agende dei governi e degli insegnamenti nelle scuole, università e business school; occorre immediatamente abolire i paradisi fiscali in tutto il mondo perché il denaro depositato in un paradiso fiscale è denaro sottratto al nostro presente e al nostro futuro e perché un nuovo patto fiscale sarà la prima risposta al mondo post-Covid.

Quando la strutturazione in classi era ben marcata, la classe operaia delle grandi fabbriche, negli anni Settanta del Novecento, con i suoi sindacati riuscì a ottenere conquiste significative per tutti i cittadini, come ad esempio il servizio sanitario nazionale. Oggi, di fronte alla “frantumazione sociale” sempre più marcata, non c’è un soggetto sociale trainante, ma una pluralità di sensibilità che in certi momenti riescono ad aggregarsi e a costituirsi in movimento.

La vera sfida per la democrazia è coniugare il disagio sociale diffuso con i movimenti innovativi sui temi dell’ecologia integrale. Fridays For Future con la sua leader svedese Greta Thunberg, il 15 marzo 2019, ha portato, per la prima volta nella storia dei movimenti, milioni di ragazzi di tutto il mondo nelle piazze per lo sciopero per il clima. È significativo che la canzone cantata nelle piazze tragga ispirazione dal ritmo di “Bella ciao”. La Convenzione dell’ONU sui cambiamenti climatici, tenutasi a Parigi tra il novembre e il dicembre 2015, pose il tema dell’adozione di misure per contenere il riscaldamento del pianeta, ma fu molto controversa: durò dodici giorni spesi tra mediazioni e compromessi. Dopo quattro anni saranno i ragazzi e le ragazze che porranno questo problema nelle scuole e sulle piazze di tutto il mondo. Comincia, pur tra numerose contraddizioni, a diffondersi la consapevolezza che l’abbandono dell’agricoltura e degli ambienti rurali, il declino della biodiversità, la deforestazione, l’inquinamento dei terreni, dell’acqua e dell’atmosfera, la concentrazione delle popolazioni nelle aree urbane, a lungo andare portano all’accelerazione di agenti patogeni che si trasmettono dalle specie animali all’uomo.

Infine, possiamo dire che, se da una parte, l’Italia si conferma come un paese della “società del benessere”, dall’altra l’aumento delle disuguaglianze e della povertà ha raggiunto livelli socialmente non sostenibili. Il rischio è che, a seguito della necessaria risposta all’emergenza sociale provocata dal Coronavirus, prevalga una cultura assistenzialistica, come se si trattasse soltanto di distribuire la ricchezza senza preoccuparsi di come produrla. Ricordo che Mancur Olson, negli anni Ottanta, scriveva che le nazioni si avviano al declino quando la lotta tra i gruppi d’interesse è rivolta essenzialmente alla distribuzione della ricchezza e non più al suo accrescimento.

Salvatore Vento

Non siamo saliti sul carro di Draghi, ma la sua Agenda è la nostra Agenda. Come realizzarla è la vera questione. Cosa cambia con Enrico Letta?

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di Franco Meloni
Riproduciamo ancora una volta l’editoriale che Luciana Castellina ha scritto per Sbilanciamoci! perchè nella sostanza esprime con esemplare chiarezza la mia posizione sul governo Draghi, con qualche precisazione e aggiornamento soprattutto in relazione alla elezione di Enrico Letta alla segreteria del Pd. Parlando di prospettive, cioè del “Che fare?” assumo poi come riferimento il contributo di Alfonso Gianni, sul Manifesto, ripreso anche dal manifesto sardo e da aladinpensiero.
Ribadiamo: l’Agenda del governo Draghi è la nostra Agenda. Vi sono elencati i titoli delle priorità da affrontare ora e per lungo tempo, durante e dopo la pandemia. Come non apprezzare il fatto che Draghi richiami l’Agenda Onu 2030 sullo Sviluppo sostenibile, così come assunta e declinata dall’Unione Europea, in particolare nell’adozione del Next Generation Eu? E’ evidente che la vera questione è come realizzare detti obbiettivi, per definizione tutti virtuosi, e quali interessi si vogliono tutelare e in qual modo e in quale misura… Al riguardo si possono richiamare le diverse questioni, ma mi limito in questa sede agli aspetti della “transizione ecologica” con la citazione della posizione di Greenpeace, che condivido, invitando ad aderire alla relativa Campagna [vedi sotto]. Comunque, certamente Draghi ha a cuore gli interessi di tutti, ma secondo la sua scala di priorità, che è quella di un esponente dell’alta borghesia, che tutela la sua classe innanzitutto, tuttavia è un keynesiano e anche un cattolico-sociale che non trascura il popolo. Il conflitto di classe che non è morto, serve proprio a spostare gli interessi, per noi appunto verso il popolo, verso la generalità dei cittadini. Per questo occorrerebbe una forte Sinistra, non importa se al governo o all’opposizione, purchè ben salda nei principi e decisa nell’attività politica al servizio delle masse popolari, come si diceva un tempo. Questa Sinistra oggi non c’è, almeno rispetto alle necessità della fase storica. Ne avremo bisogno. E bisogna costruirla. Come? Per noi partendo da quanto si muove nel Paese, fuori da palazzo, nei movimenti di cui parlano Luciana Castellina, Alfonso Gianni e altri, anzi soprattutto altre, come Norma Rangeri e Elly Schlein. Dobbiamo certo collegare l’esterno con l’interno, cioè quanto si riesce a fare di organizzato nel territorio (i movimenti della democrazia di base, le organizzazioni sindacali, etc.) con le forze buone dei partiti che agiscono sopratutto negli ambiti istituzionali. Una porta tra questi due mondi (l’interno e l’esterno, per semplificare) per quanto riguarda il Pd ci sembra individuabile nella proposta di Enrico Letta delle Agorà democratiche, su cui, contrariamente a quanto sostiene Alfonso Gianni, io credo occorra investire e, quindi, impegnarci di conseguenza. E, ancora, la conquista dello ius soli è uno degli importanti obbiettivi che condividiamo e che dobbiamo praticare con convinzione. Che dire poi sul Next Generation Eu – Recovery Plan? C’è moltissimo da lavorare da qualsiasi parte si stia. Noi sappiamo dove.
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Le lacune di Draghi
Luciana Castellina

Sbilanciamoci! 24 Febbraio 2021 | Sezione: Editoriale, Politica
Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta, in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza. E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio che in questo si è fidato solo di manager. […]
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Appena si è saputo che è a Mario Draghi che sarebbe stato affidato il governo d’emergenza proposto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’area politica vasta ma destrutturata cui io appartengo – la sinistra – ha immediatamente protestato. ”E’ un banchiere” – hanno gridato quasi tutti con orrore.

Io no. Perché, poiché non mi pare ci si trovi in un tempo in cui è pensabile l’eliminazione a breve delle banche, che lui sia uno abituato a dirigerle non mi è apparso uno scandalo. Ho anzi considerato buona cosa che dopo una così accesa e ormai prolungata ondata di sovranismo ci sarebbe stato in Italia un primo ministro non certo di sinistra e però leader autorevolissimo di quell’ala, fino ad oggi assai minoritaria, impegnata a battersi per cambiare l’Unione nel senso in cui ogni ragionevole esponente della sinistra dovrebbe voler andare. E cioè su una linea che preveda un bilancio comune, una autonoma capacità fiscale, il potere di emettere eurobond e di abolire le più rigide (e catastrofiche) regole relative al pareggio dei bilanci, rendendo così disponibili le risorse indispensabili ad avviare uno sviluppo sostenibile. Insomma, una correzione sostanziale della pessima struttura disegnata dai Trattati.

In questa direzione Draghi si è in effetti mosso da parecchi anni, al limite delle sue competenze (e persino un po’ oltre).

Poiché io sono fra quelli che ritengono quanto accade a livello europeo di massima importanza, della sua nomina ero dunque contenta. Credo infatti che la dimensione nazionale non sia più sufficiente a recuperare la sovranità popolare che la globalizzazione ha cancellato, e che dunque solo quella europea potrebbe, forse, consentirci di tornare ad esercitarla. Così restituendo ruolo alla politica, cioè agli umani, per limitare il potere deliberativo oggi affidato quasi esclusivamente al pilota automatico del mercato.

Ad una settimana dal conferimento dell’incarico a Draghi sono tuttavia molto scontenta: trovo infatti – come del resto quasi tutta la sinistra – davvero impresentabile la compagine governativa messa insieme dal nostro primo ministro. Che in questo si è rivelato proprio un banchiere, fiducioso solo nei manager, come se il disastro ambientale non fosse soprattutto responsabilità delle miopissime scelte per lo più operate dalla loro categoria, per la quale obiettivi prioritari sono profitto e Pil.

Stridono – a fronte delle scelte compiute da Draghi – le sue belle parole sull’importanza dell’ecologia, visto che non c’è, fra i tecnici che proprio lui ha scelto, neppure un ecologo, che è come portare un malato a curarsi da un ingegnere anziché da un medico. Così come la centralità che attribuisce all’innovazione tecnologica, quando l’elemento decisivo è piuttosto il mutamento dell’umanità, sempre più drammaticamente ignara di esser solo l’insignificante 0,6 % delle specie che abitano la terra con le quali se si vuole sopravvivere si dovrà ben interagire. Non servono a molto manager e tecnocrati per passare ad una economia circolare, concetto a loro per lo più oscuro e però centrale se si vuole davvero una trasformazione del nostro modo di consumare, produrre, vivere, della gerarchia dei nostri piaceri.

Dice Draghi che non andranno più finanziate le aziende che non sono vitali. Ma chi è vitale? Chi guadagna un sacco di soldi riempiendo i supermarket di prodotti superflui che consumano risorse non rinnovabili? Chi giudicherà quali sono le aziende migliori: i “migliori” fra coloro che hanno contribuito a portarci al dissesto che è sotto i nostri occhi? La cosa più preoccupante che questa crisi politica ci rivela è la scarsissima conoscenza della complessità dell’ecosistema da parte dell’establishment politico del nostro paese. E Draghi non sembra fare eccezione.

Non è un caso che fra i riferimenti delle linee guida dei bandi del Recovery Plan e quelli dei progetti annunciati, sia dal PNRR del governo Conte, sia, ora e ancor più, da quelli annunciati da Draghi, vi sia tanta poca coincidenza. Basta guardare alle parole: 109 volte la parola “ecosistema” nel documento europeo, 2 in quello italiano, tanto per fare un esempio. La stessa proporzione per parole altrettanto importanti, quali, per esempio, “biodiversità”, che non si protegge facendo crescere qua e là dei bei boschetti. Il rischio che Bruxelles ritenga le nostre richieste incompatibili con i requisiti fissati non è fantasia!

Sono osservazioni che possono sembrare pignolerie, ma sono invece indici allarmanti della storica sottovalutazione del dramma ambientale e dunque di quello sanitario, che al primo è strettamente collegato. Per un governo che è stato definito d’emergenza proprio in nome dell’urgenza della questione salute e di quella ecologica, non c’è male.

Ma è considerazione che riguarda anche la questione sociale, perché sembra non si capisca che pensare di affrontare in modo serio la questione sociale grazie alla ripresa del vecchio modello di sviluppo, magari accelerato da un prevedibile “sblocca cantieri”, non è “efficienza” e “modernità”, ma cultura da dinosauri.

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è dunque la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta (in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza). E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio: la transizione ambientale affidata a Cingolani, specialista di nanotecnologie che, quando si è pronunciato sul cambiamento energetico, ha parlato più del gas che di rinnovabili; l’accorpamento del ministero dell’Ambiente con quello dello Sviluppo che non solo non si fa come pure promesso, ma quest’ultimo viene affidato a un esponente del partito che vuole il ponte di Messina; l’innovazione tecnologica nelle mani di Colao che, oltre ad aver dato vita alla prima commissione di esperti fallita ancor prima di cominciare, viene ora decantato perché brillantissimo manager della Vodafone, fautore della modernizzazione 5G, quando la vera modernità sarebbe portare la rete nei territori, e quartieri definiti in gergo “non interessanti per il mercato” perché poveri di clienti e che infatti dalla sua azienda, così come dalle altre, proprio per via di questa povertà sono state lasciate senza collegamenti digitali. (Questo rischia fra l’altro di far fallire ogni tentativo di riportare i giovani nelle campagne per animare la trasformazione più indilazionabile che è quella dell’agricoltura).

La cosa più preoccupante è che queste scelte appaiono dettate soprattutto dall’arretratezza culturale dell’establishment che compone questo governo, di destra, di centro, e di buona parte di quella che si definisce di sinistra. Non è un bello spettacolo.

Un’ultima aggiunta: la delusione maggiore che mi ha dato Draghi è proprio sul terreno su cui mi aspettavo di più: quello della politica europea. Perché forse per la prima volta non ci sarà più un ministro per gli Affari europei. Capisco che Draghi l’abbia ritenuto inutile visto che c’è lui che ne sa più di ogni altro, ma, santiddio, il simbolico pesa in politica, eccome! E non sarà un bel segnale: adesso, infatti, avremo probabilmente a sostituzione del ministro, un sottosegretario agli Esteri incaricato dell’Europa. Tanto per far capire al mondo che noi, l’UE la consideriamo “estero”, non la Comunità di cui facciamo parte e con la quale quotidianamente condividiamo scelte che non hanno a che vedere con la politica estera.

Prima di concludere: dal nuovo governo credo non possiamo aspettarci molto, visto che nasce da una sconfitta della sinistra: la deliberata operazione liquidatoria animata da Matteo Renzi (per conto di forze ben riconoscibili) per togliere di mezzo il governo Conte, pieno di difetti e sorretto da una maggioranza confusa e fragile, ma pur sempre orientato a sinistra e forte di una conduzione del paese nel momento di una crisi senza precedenti assai migliore di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Nonostante le mie amare considerazioni su quanto è prevedibile che ora accada non sono pessimista: non tutto dipende per fortuna dal governo, in Italia sopravvive una società per nulla passiva, animata da una gran quantità di organizzazioni ambientaliste autorevoli e molto attive, da sindacati forti, da movimenti sociali radicati sul territorio, da una combattiva presenza femminista. La sua rappresentanza politica istituzionale è frantumata e perciò poco visibile. Ma c’è, e si farà sentire. Se Draghi è bravo e ben intenzionato, dovrebbe esser capace di utilizzare la sua mobilitazione.

La versione tedesca di quest’articolo appare sulla rivista online IPG della Friedrich Ebert Stiftung, la fondazione della Spd tedesca, http://www://ipg-journal.de/
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letta-microAl Letta di governo rispondiamo con la sinistra
16 Marzo 2021
di Alfonso Gianni
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(…) C’è un’unica possibilità. Aprire un processo costituente inclusivo, in cui forze più o meno organizzate, associazioni, gruppi, esperienze di lotte territoriali si possano incontrare considerandosi transitorie per raggiungere un esito non predefinito e non predefinibile, essendo appunto il frutto di un processo costituente. Le energie per aprire un simile processo non mancano se si guarda non tanto a ciò che resta della sinistra d’alternativa organizzata, ma soprattutto alla vivacità di azione e di pensiero che è emersa, proprio in questa drammatica crisi pandemico-economica, a livello della società civile.
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TRANSIZIONE ECOLOGICA: dalle parole ai fatti. La Campagna di Greenpeace.
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Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in Sardegna (Next Generation EU-Recovery Plan). Che fare?

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Venerdì 5 marzo alle ore 18.00 Il manifesto sardo e AladinPensiero organizzano un seminario web sul Recovery Plan in diretta dalla pagina Facebook, YouTube e dal sito del manifesto sardo.
Intervengono: Lilli Pruna, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro – Università di Cagliari; Chiara Maria Murgia, laureanda in Cooperazione Internazionale e Sviluppo presso La Sapienza Università di Roma; Alessandro Spano, docente di economia aziendale – Università di Cagliari; Enrico Lobina della Fondazione Sardinia; Graziella Pisu, esperta fondi strutturali europei, già direttore Centro di Programmazione RAS; Umberto Allegretti, professore emerito di diritto pubblico – Università di Firenze; Andrea Soddu, sindaco di Nuoro. Coordinano Roberto Loddo direttore de il manifesto sardo e Franco Meloni direttore di Aladinpensiero.
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Sono 209,9 i miliardi di euro destinati dall’Unione Europea all’Italia sul Recovery Fund (denominazione ufficiale Next Generation EU), da spendere entro il 2026, a cui si aggiungono i fondi strutturali europei (e per ciascun anno quelli ordinari di bilancio) sia residui, sia i nuovi della programmazione 2021-2027 (questi ultimi da spendere entro il 2029). Gli interventi programmabili in precisi progetti devono rispondere ai criteri stabiliti dalla Commissione e dal Parlamento europeo, declinando su 6 “missioni” fondamentali i 17 macro obbiettivi di sviluppo sostenibile fissati nell’Agenda Onu 2030, pienamente recepiti dall’Unione Europea. Le sei missioni sono: 1. Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4. Istruzione e Ricerca; 5. Inclusione e Coesione; 6. Salute.
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L’Italia non è in ritardo rispetto alla programmazione dei fondi (i piani devono essere presentati alla Commissione europea entro il 30 aprile 2021) stante il fatto che il precedente governo Conte aveva licenziato un’ipotesi di Piano (PNRR) il 12 gennaio u.s.: un documento ben strutturato, tuttavia incompleto e carente nell’individuazione dei percorsi attuativi; soprattutto privo del consenso delle Regioni, degli Enti locali e delle parti sociali, che sono indispensabili rispetto ai buoni esiti complessivi. Il governo Draghi apporterà i necessari correttivi nelle direzioni citate. Ne siamo certi, anche se non conosciamo ancora in quale misura lo farà.

A proposito della gestione e della spendita dei fondi, nutriamo fondate preoccupazioni sull’efficienza degli apparati ai quali compete l’operatività. De Gaulle, o forse ancor prima Napoleone, diceva “l’intendenza seguirà”, nel senso che alle decisioni politiche devono necessariamente seguire quelle attuative. Ecco, anche su questo versante, stante l’esperienza del passato, non possiamo essere tranquilli. C’è molto da correggere, in tutti gli ambiti interessati e a tutti i livelli. E in Sardegna? I problemi sono analoghi, con una dose di maggiore criticità.

Non sappiamo ancora di quanti fondi potrà disporre la Sardegna. Si parla di oltre 7 miliardi di euro, con le ulteriori aggiunte (fondi strutturali e di bilancio), sempre riferiti alla programmazione 2021-2027. Sui due versanti, quello della programmazione e quello della gestione, occorre impegnarsi, in misura molto più rilevante di quanto già si sta facendo. Occorre cambiare passo per tutti i diversi aspetti, ricercando e praticando la massima unità possibile tra le forze politiche tra di loro, le istituzioni e le parti sociali. Un po’ sul modello proposto (o imposto) da Mattarella-Draghi, che speriamo abbia successo. Dobbiamo mettere mano all’adeguamento della struttura gestionale, richiamando all’esercizio di forte corresponsabilità i pubblici impiegati, a tutti i livelli. E chiamando i cittadini, singoli e organizzati, a un forte coinvolgimento, nelle forme più avanzate della sussidiarietà.

Di tutto questo ci occuperemo in una serie di webinar, organizzati da il manifesto sardo e da Aladinpensiero (e altri media che si aggiungeranno), a cui parteciperanno politici, sindacalisti, esperti, funzionari pubblici, esponenti del mondo economico, della cultura, del terzo settore e volontariato, operatori della comunicazione. La NGEU è un’occasione che sarebbe drammatico perdere. Ma noi siamo gramscianamente ottimisti.
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IN PRIMO PIANO
M’hai detto un prospero!

02-03-2021 – di: Gianandrea Piccioli su Volerelaluna.
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CONSIGLIO REGIONALE
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L’intervento del presidente Christian Solinas.
Sul sito della Regione Autonoma della Sardegna
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Cagliari, 2 marzo 2021 – Un gruppo di lavoro che dia rappresentanza a tutte le forze politiche del Consiglio regionale, da insediarsi immediatamente, per mettere a punto una progettualità vincente basata su 4-5 grandi linee d’azione strategiche da presentare al Presidente Draghi, e capaci di disegnare uno scenario di prospettiva e rilancio concreto della Sardegna. È la linea tracciata dal Presidente della Regione Christian Solinas nel corso del dibattito in Consiglio regionale sugli interventi finanziabili con le risorse del Recovery fund, divisi nelle sei macro-aree previste dal ‘Piano nazionale di Ripresa e Resilienza’, PNRR. “Abbiamo la possibilità di mettere in campo un piano di rafforzamento della Sardegna in grado di mobilitare investimenti in settori ritenuti strategici per il rilancio dell’economia sarda e capaci di consolidare la ripresa, cogliendo le opportunità che derivano dal massiccio pacchetto di sostegni europeo che alimenterà il più imponente programma di investimenti dai tempi del Piano Marshall. Piano che il Presidente Draghi si appresta a definire – ha spiegato il Presidente Christian Solinas – Dopo un anno di intenso lavoro che ha avuto come ultimo, straordinario, risultato l’inserimento della nostra Isola in fascia bianca, la priorità della Regione è ora traghettare i sardi fuori dalla crisi. Per questo c’è tutta la disponibilità da parte di questa Giunta a definire insieme a tutte le forze politiche, le forze sociali e il mondo accademico sardo i progetti innovativi di portata regionale, così da determinare una rivoluzione in termini di innovazione, riqualificazione verde, aumento del Prodotto interno lordo e benessere secondo canoni di sostenibilità e redditività, ritenuti centrali per la ripresa dell’Isola, ha concluso. Il Presidente Solinas ha ricordando il lavoro e la ricognizione effettuati da tutti gli Assessorati nella predisposizione degli oltre 200 progetti presentati alla Conferenza Stato-Regione e alle strutture competenti dei Ministeri nel corso della fase di raccolta. Un lavoro, ha detto, che è frutto di un patrimonio stratificato nel tempo di interventi che le classi dirigenti hanno ritenuto importanti per l’Isola e che oggi è aperto ai contributi di tutti e che abbiamo la possibilità di cambiare o rafforzare”.
Obiettivo della Regione è rimettere in moto l’economia della Sardegna ottimizzando le risorse europee per rendere il sistema competitivo, favorendo il completamento di opere infrastrutturali importanti e l’attivazione di processi virtuosi che spaziano dall’innovazione digitale anche nei comparti più tradizionali, all’economia circolare passando per difesa del suolo, la scuola, i trasporti sostenibili, in linea con le sei missioni individuate con il PNRR ovvero “Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo”, “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, “Infrastrutture per la mobilità”, “Istruzione, formazione, ricerca e cultura”, “Equità sociale, di genere e territoriale”, “Salute”. “La capacità di ripresa del tessuto economico e sociale sardo – ha proseguito il Presidente – va sostenuta con adeguate misure e interventi che restringano la forbice delle diseguaglianze e allevino l’impatto della crisi, in particolare sull’occupazione. Oggi possiamo dirci pronti a impiegare al meglio le risorse che arriveranno dall’Europa. Abbiamo lo spazio per agire e il dovere di farlo con unità d’intenti e spirito di collaborazione, per il bene della nostra Isola. Confermo la disponibilità a rimettere sul tavolo le progettualità e programmare un cronoprogramma serrato per rispettare i tempi che ci consentano di presentare un grande piano per la Sardegna, ha concluso il Presidente nella sua replica al termine del dibattito in Aula, rinnovando l’invito alla partecipazione delle forze politiche, culturali, sociali, datoriali e sindacali della Sardegna.
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Recovery, verso la costituzione di una cabina di regia
C’è la disponibilità della Giunta ad accantonare i 206 progetti presentati dalla Regione a dicembre
Su L’Unione sarda online.
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NESSUN DOCUMENTO AL TERMINE DELLA SEDUTA. DEPONE MALE PER L’INTERO CONSIGLIO REGIONALE.
Come sono andate realmente le cose nel resoconto del Consiglio regionale, nel sito web.
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lampadadialadmicromicro133Una nostra proposta
Riguardo all’impegno assunto dal presidente della regione e condiviso da tutte le forze politiche presenti in Consiglio Regionale (partecipazione delle forze politiche, culturali, sociali, datoriali e sindacali della Sardegna), con specifico riferimento alle entità della società civile, di cui siamo parte attiva, sosteniamo la richiesta dell’istituzione di un Osservatorio regionale di monitoraggio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che coinvolga le entità sopra richiamate. Tutto ciò in analogia con l’Osservatorio nazionale indipendente di recente costituito su impulso della rivista online Sbilanciamoci!, a cui ha aderito anche Aladinpensiero, potendo, eventualmente, l’Osservatorio sardo costituirne articolazione territoriale.
Al riguardo si osserva come le funzioni del proposto Osservatorio regionale coincidano con il costituendo (da parte della Regione Sarda) Forum Regionale per lo Sviluppo sostenibile*, che, avendo rilevanza istituzionale, potrebbe coesistere con l’organismo di carattere spontaneo. O forse potrebbe trattarsi di un’unica entità, cosa possibile in applicazione dei principi di sussidiarietà (si parla qui di sussidiarietà orizzontale), sanciti dalla Carta costituzionale (art. 118).
* REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA – GIUNTA REGIONALE. DELIBERAZIONE N. 64/23 DEL 28.12.2018
Oggetto: Indirizzi per la costruzione della Strategia Regionale per lo Sviluppo Sostenibile (SRSvS).
“(…) La definizione della Strategia dovrà avvenire attraverso il coinvolgimento della società civile e a tal fine verrà costituito un Forum Regionale per lo Sviluppo Sostenibile quale spazio di informazione, ascolto, confronto e consultazione che si avvarrà di momenti di incontro, gestiti con metodologie partecipative, al fine di garantire il dialogo e lo scambio con tutte le parti sociali interessate”.
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Sembra che la Regione stia per costituire questo Forum. Potrebbe essere incaricato di “sorvegliare” anche l’applicazione del Recovery Plan in Sardegna, considerato che i relativi progetti devono rapportarsi proprio agli obbiettivi dell’Agenda Onu 2030. E’ di oggi (mercoledì 3 marzo 2021) il varo da parte della RAS del Forum. Ecco dove trovare le informazioni al riguardo: http://www.regione.sardegna.it/j/v/2847?s=1&v=9&c=94637&na=1&n=4&nodesc=1&ph=1&disp=2
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La crisi della Politica. Da dove ricominciare? Dibattito

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La Provvidenza, la normalizzazione e il futuro della sinistra
Volerelaluna, 3-02-2021 – di: Andrea Danilo Conte
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La formazione del Governo Draghi, le vicende che l’hanno favorita e accompagnata, la sua accettazione acritica da parte delle forze politiche (all’infuori della destra neofascista e di qualche esponente, in numero inferiore alle dita di una mano, di Sinistra italiana) e della totalità della stampa nazionale hanno aperto in quel che resta della sinistra un confronto sulle prospettive che si aprono. Le domande sono chiare: dove stiamo andando? E, ancora, che fare? A questo dibattito, su cui stanno arrivando molti e appassionati contributi, Volere la Luna dedicherà una particolare attenzione.

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Venne il giorno della Provvidenza ed era un giorno di pioggia come tutti gli altri. SuperMario, il Messia, il più competente, colui che tutto il mondo ci invidia e che non ci farà più vergognare, squarcia gli Osanna e dai cori emergono uomini e donne a volte mediocri a volte raccapriccianti. Ci avevano preparati ad avere il meglio cui l’Italia potesse aspirare. L’innovatore invece attinge al passato, quasi a voler fermare la storia, e vara un Governo di destra-centro-sinistra che riesce a concentrare il peggio dei Governi di centrodestra e di centrosinistra degli ultimi decenni: Brunetta, Gelmini, Carfagna, Franceschini, Orlando. Il suo Governo riporta l’orologio indietro di vent’anni. Come se la storia non avesse già decretato il fallimento del liberismo, della terza via e del berlusconismo. Il Migliore riesce nell’impresa di mettere insieme tutti questi fantasmi del passato quasi scommettendo che essi si possano esorcizzare gli uni con gli altri. Davamo tutti per morto il neoliberismo e ci dicevano che il Draghi della Trojka, della lettera d’intenti, della messa in ginocchio della Grecia era un lontano ricordo e che l’Uomo era cambiato. E invece l’Uomo della Provvidenza (che in Italia sarà anche Divina, ma è sempre di sesso maschile) vara un’operazione nostalgia piuttosto scialba e mediocre. Siamo dalle parti dei Governi Dini e Monti, ma in un contesto storico e internazionale totalmente mutato e con un tessuto sociale sfibrato e in ginocchio rispetto a venti o dieci anni fa. E con un tesoro di miliardi da distribuire in modo da ridisegnare gli equilibri di potere e i rapporti di forza dei prossimi anni.

Tanto rumore per nulla, dunque? Non è così.

La vera portata del Governo Draghi non sta nel Governo stesso, ma nel tipo di operazione di cui è portatore. Lo scenario politico ne esce travolto e radicalmente mutato nel giro di pochi giorni. L’operazione Draghi lascia fuori solo la Destra nazionalista e razzista, ma insonorizza e imbriglia tutto il resto, il sovranismo muscolare e xenofobo, il populismo movimentista, anche l’egoismo narcisista renziano. Non è un’operazione casuale, è quello che si voleva, che si è teorizzato e preparato nei dettagli: l’omologazione del sistema politico italiano. I poteri economici nazionali e sovranazionali hanno ritenuto che non si potesse rischiare, che alcuni disegni di legge in cantiere dovessero essere affossati e che timidissimi segnali di autonomia presenti nel precedente Governo e nel premier dovessero essere bloccati sul nascere. E così, anche la democrazia costituzionale ne esce normalizzata e commissariata. Quello di Draghi è un Governo ineccepibile sul piano della democrazia parlamentare, ma è un Governo normalizzatore e imbrigliatore delle dinamiche partecipative della democrazia costituzionale: azzerare le differenze, rendere obsoleta l’esistenza di posizione politiche contrapposte; tra Salvini e Speranza non ci devono essere differenze o comunque non devono essere percepite, perché il messaggio diretto al ventre del Paese è abbandonare gli egoismi di parte e concorrere tutti insieme al bene della nazione. Destra e sinistra definitivamente omologate. I rider e le multinazionali, gli invisibili e i miliardari del Billionaire, sono la stessa cosa. Difendere i primi contrasta con l’interesse nazionale. E soprattutto i primi devono rimanere senza rappresentanza politica, mentre ai secondi è garantita la “copertura” di tutto l’arco parlamentare. Da questo punto di vista, si tratta del disegno più pericoloso che il Paese potesse subire. Azzerare il conflitto vuol dire consegnare lo scettro ai più forti, negare l’esistenza stessa della lotta politica per la difesa di interessi differenti; e prelude sempre alla chiamata della Patria che non consente diserzioni. E infatti nessuno ha disertato; anche quella sparuta pattuglia di parlamentari di sinistra, del tutto scollegata con i fermenti vivi del Paese, ha piegato la testa. Il Normalizzatore ha sancito così la definitiva vittoria dell’antipolitica; ci avevano detto di aspettarci chissà quale svolta storica o quale raffinata teoria e invece siamo a livello di pettegolezzo da bar: «tanto son tutti uguali». Draghi offre così il migliore puntello alla recente vittoria referendaria: che senso ha avere così tanti parlamentari se tanto stanno tutti dalla stessa parte? L’unanimismo rende inutili le sfumature e le differenze e la rappresentanza era già diventata un costo da tagliare.

Ma se questo è lo scenario, oggi che essere “di parte” è messo al bando dalla storia, per chi intende la democrazia costituzionale come partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese in difesa di idee, valori, interessi, programmi si apre uno scenario inedito e senza precedenti. In un contesto in cui tutte le forze rappresentate in Parlamento fanno da megafono alla normalizzazione di ogni alterità, chi intende stare da una parte sola ha un’occasione unica. Bisogna far nascere immediatamente nel Paese una forza politica alternativa, che sottragga alla Meloni il palcoscenico della vita pubblica per evitare l’ultima delle beffe, ossia che una forza in realtà omogenea alla compagine governativa riesca a intercettare l’opposizione senza essere autenticamente diversa. La costituzione di una forza politica che sappia mettere a nudo l’anticaglia di questo Governo non può essere rinviata oltre. Fra un anno, l’antipolitica avrà seminato ulteriori veleni e una parte rilevante del Paese non può continuare a essere ancora esclusa dalla rappresentanza politica. O dovremo prepararci a scenari ancora più cupi.

Ci sono alcuni pilastri imprescindibili per avviare questo percorso. Primo. Il meglio che offre il Paese non è dentro questo Governo e non trova rappresentanza in questo Parlamento. Bisogna risvegliare queste energie e farle tornare in politica, coinvolgerle da subito nel processo costituente. Secondo. Chi è antagonista a questo sistema politico ed economico deve smetterla di ritenersi autosufficiente e di vantarsi della propria identità e purezza. Nei prossimi mesi, PD e 5S deflagreranno. Occorre da subito, con umiltà, avviare un dialogo con le parti migliori di questi due soggetti politici perché nessuno è sufficiente a sé stesso. Terzo. La testimonianza appartiene alla sfera personale dell’impegno politico, non a quella collettiva. Un soggetto collettivo che si propone il cambiamento del Paese deve essere consapevole che le sue posizioni e tutta la sua comunicazione devono essere popolari e non elitarie.

Il momento è questo e non è rinviabile. Forse Draghi è davvero l’uomo mandato dalla Provvidenza, per dare nuova vita a una storia spezzata.
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IN PRIMO PIANO
Governo Draghi: come in Svizzera?
Volerelaluna, 23-02-2021 – di: Francesco Pallante
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Alla fine, la legislatura a maggioranza Cinque Stelle si conclude davvero come in Svizzera. Solo che a venire presa a modello dal sistema elvetico non è la componente iper-maggioritaria, incentrata sugli istituti della democrazia diretta, bensì quella iper-consociativa, incentrata sul ruolo dei partiti politici. Difficile immaginare una sconfitta più clamorosa dell’impostazione ideologica grillina.

Tra le peculiarità della Svizzera c’è quella di non essere una democrazia parlamentare e nemmeno una democrazia presidenziale: il governo non nasce dalla fiducia conferita dal parlamento né da un voto popolare diretto. La forma di governo elvetica è ispirata al cosiddetto regime direttoriale, un modello, nato dall’esperienza della Rivoluzione francese, che non ricorre in alcuna altra democrazia del mondo. Caratteristica del sistema direttoriale è l’elezione dell’organo esecutivo – che funge anche da Capo di Stato collegiale – da parte del parlamento, in modo tale che sia proporzionalmente rispettata la consistenza dei maggiori gruppi parlamentari. Questo significa che i ministri sono espressione non di una maggioranza politica, come avviene nei sistemi parlamentari, bensì dell’intera assemblea rappresentativa, così da riprodurre in piccolo, all’interno dell’organo esecutivo, il pluralismo politico-ideologico che connota il parlamento. Sarebbe come se, in Italia, sulla base dei risultati delle votazioni del 2018, il governo fosse stato fin da subito – ordinariamente e non, come adesso, eccezionalmente – formato da ministri riconducibili al Movimento 5 Stelle, al Partito democratico, alla Lega e a Forza Italia. Occorre, inoltre, tenere presente che il parlamento svizzero è eletto con sistema proporzionale e che, come nei sistemi presidenziali, una volta designato, il governo non è poi sfiduciabile.

Com’è intuibile, un governo composto secondo la formula ora descritta non è, di regola, in condizione di esprimere un indirizzo politico omogeneo. A sua volta, un parlamento eletto tramite legge elettorale proporzionale e non tenuto a costruire alleanze di governo risulta normalmente incapace di esprimere una maggioranza stabile. Ecco spiegato il frequente ricorso al corpo elettorale per l’assunzione, tramite referendum, delle decisioni maggiormente delicate: il prezzo da pagare per la stabilità dell’esecutivo e per il rispetto del pluralismo politico è il rischio della paralisi decisionale, che viene equilibrato attribuendo l’essenziale del potere deliberativo direttamente agli elettori. Anche se – va aggiunto – nella prassi non è poi così raro che le forze politiche, per non rimanere “tagliate fuori” dall’esercizio del potere decisionale, trovino il modo di accordarsi.

Il problema è che da noi il modello svizzero arriva non in virtù della forza dei partiti, necessaria a riequilibrare la forza degli elettori, ma a causa della debolezza di entrambi: dei partiti e degli elettori. È il tragico paradosso della cosiddetta seconda Repubblica: nata per sottrarre potere alle forze politiche organizzate e attribuirlo ai cittadini, ha finito per toglierlo alle une e agli altri. Quattro «governi tecnici» – Ciampi, Dini, Monti e, ora, Draghi – sono lì a dimostrarlo. Il vecchio sistema politico, bene o male, aveva sempre saputo gestire i passaggi storici cruciali: l’uscita dal fascismo, la guerra fredda, la ricostruzione post-bellica, la crisi petrolifera, la strategia della tensione, il terrorismo. Quello nuovo si sfalda non appena si esula dall’ordinario: l’adozione dell’euro, la crisi finanziaria del 2008, la pandemia e la ripresa post-pandemica.

È venuto il momento di abbandonare la falsa contrapposizione tra i partiti (la società politica) e gli elettori (la società civile) – una contrapposizione portata alle estreme conseguenze dal Movimento 5 Stelle, in piena continuità, non in rottura, con il passato – e comprendere che solo rafforzando i primi si rafforzano anche i secondi. Altrimenti non ci resta che rassegnarci a quella che pare essere la nuova costituzione materiale della Repubblica: quando il gioco si fa duro, i duri escono da Palazzo Koch ed entrano a Palazzo Chigi.
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sbilanciamoci-20 Le lacune di Draghi
Luciana Castellina, su Sbilanciamoci!
24 Febbraio 2021 | Sezione: Editoriale, Politica

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta, in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza. E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio che in questo si è fidato solo di manager. E […]

Appena si è saputo che è a Mario Draghi che sarebbe stato affidato il governo d’emergenza proposto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’area politica vasta ma destrutturata cui io appartengo – la sinistra – ha immediatamente protestato. ”E’ un banchiere” – hanno gridato quasi tutti con orrore.

Io no. Perché, poiché non mi pare ci si trovi in un tempo in cui è pensabile l’eliminazione a breve delle banche, che lui sia uno abituato a dirigerle non mi è apparso uno scandalo. Ho anzi considerato buona cosa che dopo una così accesa e ormai prolungata ondata di sovranismo ci sarebbe stato in Italia un primo ministro non certo di sinistra e però leader autorevolissimo di quell’ala, fino ad oggi assai minoritaria, impegnata a battersi per cambiare l’Unione nel senso in cui ogni ragionevole esponente della sinistra dovrebbe voler andare. E cioè su una linea che preveda un bilancio comune, una autonoma capacità fiscale, il potere di emettere eurobond e di abolire le più rigide (e catastrofiche) regole relative al pareggio dei bilanci, rendendo così disponibili le risorse indispensabili ad avviare uno sviluppo sostenibile. Insomma, una correzione sostanziale della pessima struttura disegnata dai Trattati.

In questa direzione Draghi si è in effetti mosso da parecchi anni, al limite delle sue competenze (e persino un po’ oltre).

Poiché io sono fra quelli che ritengono quanto accade a livello europeo di massima importanza, della sua nomina ero dunque contenta. Credo infatti che la dimensione nazionale non sia più sufficiente a recuperare la sovranità popolare che la globalizzazione ha cancellato, e che dunque solo quella europea potrebbe, forse, consentirci di tornare ad esercitarla. Così restituendo ruolo alla politica, cioè agli umani, per limitare il potere deliberativo oggi affidato quasi esclusivamente al pilota automatico del mercato.

Ad una settimana dal conferimento dell’incarico a Draghi sono tuttavia molto scontenta: trovo infatti – come del resto quasi tutta la sinistra – davvero impresentabile la compagine governativa messa insieme dal nostro primo ministro. Che in questo si è rivelato proprio un banchiere, fiducioso solo nei manager, come se il disastro ambientale non fosse soprattutto responsabilità delle miopissime scelte per lo più operate dalla loro categoria, per la quale obiettivi prioritari sono profitto e Pil.

Stridono – a fronte delle scelte compiute da Draghi – le sue belle parole sull’importanza dell’ecologia, visto che non c’è, fra i tecnici che proprio lui ha scelto, neppure un ecologo, che è come portare un malato a curarsi da un ingegnere anziché da un medico. Così come la centralità che attribuisce all’innovazione tecnologica, quando l’elemento decisivo è piuttosto il mutamento dell’umanità, sempre più drammaticamente ignara di esser solo l’insignificante 0,6 % delle specie che abitano la terra con le quali se si vuole sopravvivere si dovrà ben interagire. Non servono a molto manager e tecnocrati per passare ad una economia circolare, concetto a loro per lo più oscuro e però centrale se si vuole davvero una trasformazione del nostro modo di consumare, produrre, vivere, della gerarchia dei nostri piaceri.

Dice Draghi che non andranno più finanziate le aziende che non sono vitali. Ma chi è vitale? Chi guadagna un sacco di soldi riempiendo i supermarket di prodotti superflui che consumano risorse non rinnovabili? Chi giudicherà quali sono le aziende migliori: i “migliori” fra coloro che hanno contribuito a portarci al dissesto che è sotto i nostri occhi? La cosa più preoccupante che questa crisi politica ci rivela è la scarsissima conoscenza della complessità dell’ecosistema da parte dell’establishment politico del nostro paese. E Draghi non sembra fare eccezione.

Non è un caso che fra i riferimenti delle linee guida dei bandi del Recovery Plan e quelli dei progetti annunciati, sia dal PNRR del governo Conte, sia, ora e ancor più, da quelli annunciati da Draghi, vi sia tanta poca coincidenza. Basta guardare alle parole: 109 volte la parola “ecosistema” nel documento europeo, 2 in quello italiano, tanto per fare un esempio. La stessa proporzione per parole altrettanto importanti, quali, per esempio, “biodiversità”, che non si protegge facendo crescere qua e là dei bei boschetti. Il rischio che Bruxelles ritenga le nostre richieste incompatibili con i requisiti fissati non è fantasia!

Sono osservazioni che possono sembrare pignolerie, ma sono invece indici allarmanti della storica sottovalutazione del dramma ambientale e dunque di quello sanitario, che al primo è strettamente collegato. Per un governo che è stato definito d’emergenza proprio in nome dell’urgenza della questione salute e di quella ecologica, non c’è male.

Ma è considerazione che riguarda anche la questione sociale, perché sembra non si capisca che pensare di affrontare in modo serio la questione sociale grazie alla ripresa del vecchio modello di sviluppo, magari accelerato da un prevedibile “sblocca cantieri”, non è “efficienza” e “modernità”, ma cultura da dinosauri.

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è dunque la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta (in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza). E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio: la transizione ambientale affidata a Cingolani, specialista di nanotecnologie che, quando si è pronunciato sul cambiamento energetico, ha parlato più del gas che di rinnovabili; l’accorpamento del ministero dell’Ambiente con quello dello Sviluppo che non solo non si fa come pure promesso, ma quest’ultimo viene affidato a un esponente del partito che vuole il ponte di Messina; l’innovazione tecnologica nelle mani di Colao che, oltre ad aver dato vita alla prima commissione di esperti fallita ancor prima di cominciare, viene ora decantato perché brillantissimo manager della Vodafone, fautore della modernizzazione 5G, quando la vera modernità sarebbe portare la rete nei territori, e quartieri definiti in gergo “non interessanti per il mercato” perché poveri di clienti e che infatti dalla sua azienda, così come dalle altre, proprio per via di questa povertà sono state lasciate senza collegamenti digitali. (Questo rischia fra l’altro di far fallire ogni tentativo di riportare i giovani nelle campagne per animare la trasformazione più indilazionabile che è quella dell’agricoltura).

La cosa più preoccupante è che queste scelte appaiono dettate soprattutto dall’arretratezza culturale dell’establishment che compone questo governo, di destra, di centro, e di buona parte di quella che si definisce di sinistra. Non è un bello spettacolo.

Un’ultima aggiunta: la delusione maggiore che mi ha dato Draghi è proprio sul terreno su cui mi aspettavo di più: quello della politica europea. Perché forse per la prima volta non ci sarà più un ministro per gli Affari europei. Capisco che Draghi l’abbia ritenuto inutile visto che c’è lui che ne sa più di ogni altro, ma, santiddio, il simbolico pesa in politica, eccome! E non sarà un bel segnale: adesso, infatti, avremo probabilmente a sostituzione del ministro, un sottosegretario agli Esteri incaricato dell’Europa. Tanto per far capire al mondo che noi, l’UE la consideriamo “estero”, non la Comunità di cui facciamo parte e con la quale quotidianamente condividiamo scelte che non hanno a che vedere con la politica estera.

Prima di concludere: dal nuovo governo credo non possiamo aspettarci molto, visto che nasce da una sconfitta della sinistra: la deliberata operazione liquidatoria animata da Matteo Renzi (per conto di forze ben riconoscibili) per togliere di mezzo il governo Conte, pieno di difetti e sorretto da una maggioranza confusa e fragile, ma pur sempre orientato a sinistra e forte di una conduzione del paese nel momento di una crisi senza precedenti assai migliore di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Nonostante le mie amare considerazioni su quanto è prevedibile che ora accada non sono pessimista: non tutto dipende per fortuna dal governo, in Italia sopravvive una società per nulla passiva, animata da una gran quantità di organizzazioni ambientaliste autorevoli e molto attive, da sindacati forti, da movimenti sociali radicati sul territorio, da una combattiva presenza femminista. La sua rappresentanza politica istituzionale è frantumata e perciò poco visibile. Ma c’è, e si farà sentire. Se Draghi è bravo e ben intenzionato, dovrebbe esser capace di utilizzare la sua mobilitazione.

La versione tedesca di quest’articolo appare sulla rivista online IPG della Friedrich Ebert Stiftung, la fondazione della Spd tedesca, http://www://ipg-journal.de/

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EVENTI CONSIGLIATI
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LUNEDÌ 1 MARZO 2021 ALLE ORE 15:30
Mezzogiorno: una opportunità per il Paese
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Piove a Roma e abbiamo il nuovo governo. Ci aspettavamo un maggiore investimento innovativo. Ma, nonostante tutto, vale la pena sostenere, critici e vigili. E la Sardegna? Per ora al palo. Qualcosa però si muove…

schermata-2021-02-12-alle-22-09-50Con Mario Draghi 23 ministri, 15 uomini e 8 donne.
Sono 4 i ministri per M5S, 3 ciascuno per il Pd, la Lega e Forza Italia, 1 per Leu e Italia Viva, con 8 tecnici. La media dell’età dei ministri è 54 anni. Il giuramento è fissato per le 12.00 di sabato 13 febbraio al Quirinale. Ecco i nomi.

PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Mario Draghi

Luigi Di Maio (M5S) agli Esteri

Luciana Lamorgese (tecnica) all’Interno

Marta Cartabia (tecnica) alla Giustizia

Daniele Franco (tecnico) all’Economia

Lorenzo Guerini (Pd) alla Difesa

Giancarlo Giorgetti (Lega) allo Sviluppo economico

Stefano Patuanelli (M5S) all’Agricoltura

Roberto Cingolani (tecnico) alla Transizione ecologica

Dario Franceschini (Pd) alla Cultura

Roberto Speranza (Leu) alla Salute

Enrico Giovannini (tecnico) alle Infrastrutture

Andrea Orlando (Pd) al Lavoro

Patrizio Bianchi (tecnico) all’Istruzione

Cristina Messa (tecnico) all’Università

Federico D’Incà (M5S) ai Rapporti con il Parlamento

Vittorio Colao (tecnico) all’Innovazione tecnologica

Renato Brunetta (Forza Italia) Pubblica amministrazione

Maria Stella Gelmini (Forza Italia) agli Affari regionali

Mara Carfagna (Forza Italia) al Sud

Elena Bonetti (Italia Viva) alle Pari opportunità

Erika Stefani (Lega) alle Disabilità

Fabiana Dadone (M5S) alle Politiche giovanili

Massimo Garavaglia (Lega) al Turismo

Sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli (tecnico).
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lampadadialadmicromicro1Il nuovo Governo comincia. Un’apertura di credito, nonostante tutto. E la Sardegna? Ancora al palo, ma qualcosa eppur si muove!

Non è esattamente quanto ci aspettavamo. Avremo voluto maggior coraggio, maggiore investimento innovativo, anche nella scelta delle persone. Comunque Draghi e la nuova compagine sono in grado, sulla carta, di traghettare l’Italia verso una normalità democratica, quando si dovrà tornare alla sana dialettica maggioranza/opposizione, passando per un rinnovamento dei partiti e un nuovo sistema elettorale proporzionale, che promuova la partecipazione istituzionale. Auspichiamo questo nuovo quadro, nella transizione che deve essere governata, ancora nella pandemia ma con tutte le risorse già a disposizione (Next Generation Eu – Recovery Fund in primis). Dobbiamo uscire dalla crisi sapendo che dobbiamo superare la pandemia e la sindemia, cioè quel complesso di situazioni sanitarie, ambientali, sociali (disuguaglianze, povertà, disoccupazione, diritti negati…) che ci hanno travolto. Dalla crisi, ci ricorda ogni giorno Papa Francesco possiamo uscire migliori o peggiori. Insieme e con duro lavoro possiamo uscirne migliori. Tutti dobbiamo fare la nostra parte. Noi qui, in Sardegna, che rischia di essere ignorata e non resa partecipe dell’impresa comune. Una cosa è certa: se come sardi non ci facciamo sentire, nessuno ci terrà in considerazione. Noi nell’ambito della comunicazione e in quello politico-sociale-culturale faremo la nostra parte, in collaborazione con tutti coloro che intraprenderanno o hanno già intrapreso questo percorso.
Al riguardo, per una volta, pur sapendo in quale situazione di disagio sociale e anche di disperazione versiamo, lasciateci volgere lo sguardo verso i segnali delle cose che vanno in senso ostinatamente contrario: la ripresa della partecipazione, specie giovanile, l’attività (poco riconosciuta dalle Istituzioni) del terzo settore e del volontariato. In questo contesto vediamo crescere una piccola esperienza lanciata da un gruppo di cattolici sardi, che ora comincia a prendere il largo come iniziativa coinvolgente tante altre persone, “gli uomini e le donne di buona volontà”: il Patto per la Sardegna. Ci ritorneremo.
(Franco Meloni)
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Primi commenti.
Governo Draghi un carro per tutti in attesa di elezioni
13 Febbraio 2021
A.P. su Democraziaoggi.
Cos’è il governo Draghi? Come dev’essere intesa questa corsa a esserci senza paletti e condizioni. Come sembrano interpretarlo i partiti che si sono affrettati ad aderire, senza neanche conoscere il programma? Come è stato inteso l’appello di Mattarella all’unità nazionale?
Non è facile rispondere, ma alla buona e all’ingrosso pare che i partiti e i gruppi lo intendano più o meno così.
Draghi deve fare alcune cose indifferibili (Recovery, lotta pandemia, misure mitigatrici in campo economico e sociale, scuola, sanità ecc.). Se le avesse fatte Conte, se ne sarebbe intestato il merito o il corpo elettorale glielo avrebbe riconosciuto. La sua popolarità è già alta; è pericoloso per tutti (anche per il M5S?) incrementarla. Meglio un governo nel quale il merito è di tutti o di nessuno. Ecco perchè tutti vogliono esserci. E tutti vogliono tutti. E ci sono. Si va da alcune eccellenze ad alcune ragazze di B. fino alla Catarbia, che sembra una collegiale. La ratio delle composizione? Lasciamo da parte la vulgata della competenza, bla, bla, bla (non se ne può più!). Volete la verità? Nessuno ritiene vantaggiosa la partecipazione alle elezioni dall’opposizione. “Il potere logora chi non ce l’ha“, diceva uno che se ne intendeva, e non incrementa i voti. Quindi, lasciamo fare a Draghi alcune cose rognose, senza che nessuno possa trarne esclusivo merito (o demerito) in chiave elettorale, poi tutti in lotta contro tutti. E si vedrà. Anche per i ministri, non è tanto importante che ci siano i miei, l’importante che non ci siano neanche quelli altrui. Oppure – come è stato – par condicio, un po’ di tutto. Nel mezzo c’è l’elezione al Colle, e Draghi ha interesse a essere buono, a non scontentare nessuno. Niente figli e figliastri. Se no, tiro dal muretto a secco e impallinatura, come con Marini o Prodi. Ricordate? Sembrava impossibile, e invece… Draghi, dunque, è avvisato. Stia calmo e buono, se vuole salire al Colle. Ma lui questo ben lo sa e tutto vuole fuorché essere crocifisso. Tutto sommato lassù meglio lui di qualche improbabile uomo o donna del centrodestra, con umori antiCarta, razzisti e nostalgici.
E poi? Poi la partita riprenderà. E il gioco sarà pesante. Gli unici fuori dai radar sono ancora una volta i ceti popolari. A loro ci pensa solo Francesco nelle sue preghiere. Molta fede e buona volontà, ma non fa miracoli.
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Tonino Dessì
13 Febbraio 2021 – 10:06 su Democraziaoggi.

Una “ribollita” di centrodestra.
Che un Governo “di unità nazionale” o “di salute pubblica” o di “emergenza” espresso da questo Parlamento sarebbe stato spostato in senso più moderato rispetto al Governo Conte 2, si poteva darlo per scontato.
Vedere tuttavia così plasticamente incarnato in persone fisiche un Governo che è difficile non definire di centrodestra fa abbastanza impressione.
E parlo tanto della componente politica quanto di quella tecnica.
Come spiegare, se non come assunzione dell’interim implicito del ministero in capo a Draghi, il senso del siluramento di Gualtieri all’economia, per esempio, per sostituirlo con un tecnico dalla lunga carriera svolta fra Ragioneria generale dello Stato e Direzione generale di Bankitalia?
In parallelo, tuttavia, allo sviluppo economico nientemeno che il numero due della Lega, Giorgetti.
E Brunetta alla pubblica amministrazione non inganni: ce lo ricordiamo con lo stesso incarico in una precedente occasione e il giudizio non mi pare fosse dei più positivi, ma soprattutto, come storico, principale riferimento berlusconiano in materia economica, completa abbastanza linearmente il quadro degli equilibri interni che caratterizzano l’Esecutivo.
Colpisce sotto questo profilo anche il fatto che la composizione del Governo sia accentuatamente nordista: è vero, al Mezzogiorno c’è la pur volenterosa, intelligente e napoletana Carfagna, ma non riequilibra per nulla il contesto.
Si, naturalmente per esprimere una valutazione compiuta aspettiamo il programma (Recovery, vaccini, ripartenza, poco altro di più, magari niente di esplicitamente antipopolare).
Certo, niente elezioni anticipate in cui scontare meriti e demeriti di questa legislatura.
Infine si tira avanti senza strappi fino all’elezione del nuovo Capo dello Stato, scongiurando il rischio che possa eleggerselo da solo un centrodestra del quale si pronosticherebbe “allo stato” un largo successo elettorale.
Sai però che entusiasmo.
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GOVERNO DRAGHI: IL SUD E LA SARDEGNA MARGINALIZZATI?
di Benedetto Sechi, su fb.
Si sentono flebili lamenti, giungere da alcune parti della penisola e dell’Isola, sulla mancata presenza di rappresentanti nel nuovo governo Draghi. Tempo al tempo! Un qualche straccio di sottosegretario (dei quali confesso, non ho mai capito la funzione), verrà assegnato a chi sta ai confini dell’impero. Si tratterà. perlopiù di pro consoli, ufficiali di collegamento, utili a tenere i rapporti con le truppe, in attesa di ordini.

In realtà tutto il sud è stato messo un da parte! C’è da spendere soldi e questi si sa vanno dove l’economia tira, e l’economia tira soprattutto nel nord. Dall’unificazione del Regno d’Italia è sempre stato così. Non per ineluttabile destino, o per l’indolenza dei meridionali, ma perché cosi si è voluto formare lo stato italiano. Perciò il pensiero di Cavour, continua ad essere il faro dello stivale.

Troppo ghiotto è il piatto, ed i leghisti, che interpretano al meglio gli umori dell’impresa nordista, non se lo sono fatto ripetere due volte, abiurando alle loro storiche quanto insulse battaglie: rom, immigrati, no tasse, no euro, no Europa, pur di essere della partita.

Al sud una classe politica di secondo livello, non riesce a mettere insieme convenienze comuni e legittimarsi per una svolta davvero radicale, che metta in risalto le sue enormi potenzialità.

E la Sardegna? Mah? Questa è oggi, ancora più marginale, nonostante, o forse a causa, del governo sardo-leghista.
Il PSd’Az, che perfino nel suo statuto prevede il raggiungimento dell’indipendenza, ha delegato la sua rappresentanza nazionale a Salvini, sposando, di fatto il nazionalismo ed il sovranismo italiano, negando cioè la sua stessa ragione per esistere.

E’ parso davvero strano che Draghi incontrasse i rappresentanti delle minoranze linguistiche ed etniche, valdostane e sud-tirolesi, ma non i sardi, che pure numericamente sono ben più numerosi. Ancora più strano il fatto che nessuno glielo abbia chiesto.
Ma il presidente Solinas il problema non se lo è neppure posto, ha lasciato che fosse Salvini, rappresentarci.

Si è, ancora una volta, riconfermato che, per lo stato italiano, la lingua sarda non esiste, e che pertanto i sardi non sono un minoranza etnica.
Lo Statuto di Autonomia, ormai vetusto e che perciò andrebbe radicalmente cambiato, non è, evidentemente, tra le priorità di questo presidente regionale e dei sardisti. Il punto, quindi, sta nella scarsa consapevolezza dei sardi, di avere una loro identità culturale, storica, linguistica e perciò politica, sulla quale basare il patto istituzionale che li lega allo stato italiano, ed aggiungo all’Europa.
Si nega così l’esistenza di una “Questione Meridionale”, e di una “Questione Sarda” di gramsciana memoria. Eppure il reddito pro capite del sud è allarmante, povertà e criminalità organizzata crescono, mentre i nuovi paesi arrivati nella U.E. si sviluppano e ci sorpassano.

Ma in un tempo di grandi trasformazioni economiche e sociali, una forte iniziativa per costruire una “Macro Regione Europea del Mediterraneo”, non sarebbe più che sacrosanta? Potrebbe essere utile non solo al sud Italia, alla Sardegna, ma anche alla stessa Europa.
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Il governo d’emergenza e il sommerso della crisi
di Guido Formigoni
12 Febbraio 2021 by c3dem_admin | su C3dem.
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Corradino Mineo su fb.